Non aspettate che le cose vadano a posto da sole e che la vita riprenda senza che un pezzo della strada che manca non lo copriate con i vostri passi. L’entropia ed il caos che governano l’universo vincono su tutto se non mettiamo l’energia che serve per portare ordine. Ed in questi giorni di caotici equivoci, rincorse disperate alle ansie di tanti, di socializzazione estrema della paura non serve nascondersi dietro al tempo che tutto mette a posto. Perché il tempo non ci ridarà da solo la serenità e la forza e non costruirà i ponti caduti.



Il Paese che consociamo, fatto di campanili e stereotipi, si è trovato sottosopra. E i legami tra imprese e persone si sono spezzati improvvisamente, imponendo a tutti di rivedere stereotipi e certezze. Non esiste un mondo fatto di confini inviolabili, in primo luogo. Siamo sempre stati collegati come Paese al mondo. E del mondo abbiamo assorbito tanto, anche i pericoli, ma abbiamo gestito tutto a modo nostro creando un unicum geografico che trasforma ciò che riceve e lo rende migliore.



Questi legami, quei ponti, sono una ricchezza straordinaria che solo ora emerge nella sua prepotente necessità poiché temiamo che chiudano anche se, nonostante la loro indispensabile esistenza, un pezzo di Paese, inconsapevole, li guarda con timore. Sembra che solo ora ci accorgiamo di quanto il Paese sia molto meno diviso di quel che sembra e la necessità di muoverci e creare cose nuove, vedere colleghi e riabbracciare amici, ci fa capire come non esista un paesello ideale in cui tutto accade ma che noi stessi siamo connessi al Nord ed al Sud senza soluzione di continuità. Un punto nella cartina, alla periferia di Lombardia e Veneto, non vive del suo campanile ma è un pezzo intero di Paese, è il Paese stesso. 



E sono venute meno le certezze anche su chi ha sempre le braccia aperte. Un misto di stupido livore e di ignoranza ha fatto urlare contro i turisti ad Ischia, come se tanti di quell’isola non lavorino nella stagione invernale nei ristoranti e nelle baite del Nord, nelle loro cucine, e tanti ragazzi di quell’isola non vivano e studino a Milano, Venezia o Torino e non tornino a casa a riabbracciare le famiglie periodicamente. Come se il contagio sia una questione di dialetto e poter lanciare un urlo valga a cancellare quelli che si è ricevuti, senza capire che proprio quel senso di rivalsa fa comprendere quanto inadeguatamente simili siano tutti gli urlatori di insulti territoriali e quanto la presunta diversità culturale debba emergere quando le cose diventano difficili. E per tutti sono odiosi i cori in Francia contro i bianconeri inneggianti al virus, almeno quanto quelli sul colera che qualche amico della signora di Ischia urla in qualche stadio contro la squadra di Napoli.   

Diventa evidente, insomma, quanto il pregiudizio sia stupido ed irreale, quanto sia un regalo alle menti deboli che si nutrono di preconcetti ed illusorie diversità preconcetti che cadono davanti alla realtà stecchiti, inesorabilmente,  come foglie in autunno. E se tanto la paura ed i pregiudizi fanno male, tanto le energie positive si sviluppano e crescono germogliando in terreni fertili, dando la scossa e cogliendo un sentimento per assonanza e non per origine. Come il gruppo di imprenditori, largamente meridionale, che ha proposto e lanciato lo spot su Milano che non chiude, affidato alla creatività di un gruppo di pugliesi.

Ha talmente colto nel profondo lo spirito della città da essere un manifesto ed una linea Maginot culturale, che ha voluto testimoniare che la voglia di esserci e di pensare al futuro, sempre, semplicemente non chiude. Un vero spot per il  Paese che non è nato come slogan sui muri della Bovisa ma da una necessità di comunicazione, dal cuore di imprenditori meridionali accolti da Milano. Tanto efficace che, unico neo, è stato chiesto e immediatamente tradotto in inglese da molti imprenditori, che di porti e ponti sono esperti, e sanno quanto sia importante comunicare al mondo di fuori che le dirette con le mascherine sono degne di Carnevale, come lo scherzo, si spera, fuori tempo sulla dieta dei cinesi di Zaia. 

Tutto questo non ha nulla di salvifico per le prossime difficili settimane, in cui si dovrà tener fede alla scienza ed al buon senso, si dovrà marciare uniti per uscire dall’accerchiamento mentale che blocca nella paura chi in casa non deve restarci ma ci si è chiuso da solo senza che ve ne sia bisogno.

Dovremo con energia e forza ridare fiato all’idea che il Paese non è fatto di pezzi che tra loro non si ritrovano, ma è un organismo unico e complesso che genera ed ha generato prosperità, un Paese in cui i mali del Nord sono i mali del Sud ed i mali del Sud sono i mali del Nord. Rammentandoci dei nostri nonni alle prese con i milioni di morti della spagnola negli anni venti e dell’asiatica negli degli anni cinquanta, una generazione che quando ci ha consegnato il Paese lo ha fatto lasciandolo più forte di come lo aveva trovato, nonostante tutto.

Non sarà semplice lottare sul filo del buon senso e della voglia di fare contro gli stereotipi e la paura ingiustificata, praticando misericordia per gli errori dei politici, su cui giudicare a posteriori; non sarà una passeggiata ma, si spera, una chiusura agostana anticipata con qualche settimana a basso regime. Lottando con medici ed infermieri per ogni malato, per evitare, noi, che altri ne se aggiungano. Ma sarà dura comunque tenere aperti i porti, far funzionare i valichi e far scorrere il traffico sui ponti. Sarà dura, ma è quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare. Senza fermarsi.