Assad è uscito mercoledì scorso dal campo profughi che è stato montato qui a Pazarkule, al confine tra Turchia e Grecia, vicino alla città di Edirne. Assad, con un gruppo di amici di Kabul, ha preso la strada sterrata che unisce il confine alla cittadina di Karach per andare a prendere pane e vestiti caldi per trascorrere la notte ancora molto fredda. Davanti ad Assad camminavano un paio di sub-sahariani, oltre a due curdi iracheni, e dietro un gruppo di siriani biondi.
Pazarkule è diventato il purgatorio del mondo, dove si parlano tutte le lingue di chi si è ritrovato senza passato né futuro, senza tetto e senza Paese. Assad, come tutti coloro che sono arrivati al confine, ha subito intimidazioni da parte dei turchi e la violenza dei greci che usano gas lacrimogeni e proiettili di gomma per bloccare l’accesso all’Europa. “Ero un professore a Kabul – spiega l’afgano in inglese -, avevo il mio lavoro, ma sono venuto in Turchia perché non sopportavo la pressione degli jihadisti. In questo Paese ho sofferto, ho lasciato tutto a Istanbul perché Erdogan ha detto che il confine era aperto e ora non ho posto dove andare”. Assad, come tutti gli afgani, vive una situazione peggiore rispetto ai siriani, che hanno lo status di “protezione temporanea” che gli consente di lavorare in modo irregolare e di poter mandare i propri figli a scuola per imparare il turco. Assad trova un supermercato nella città di Karach che ha avuto compassione di coloro che sono andati a chiedere il pane. Torna contento perché ha di che cenare. Il pane di Karach, consegnato gratuitamente, è un esercizio di compassione della piccola politica che non ha pari nella grande politica.
C’è stato pane a Karach, panini con la mortadella alla stazione degli autobus di Edirne, dove sono rimaste intrappolate una ventina di famiglie. Anche abiti, donati dai contadini turchi, per bambini sulle rive del fiume Evros. Sono arrivati perché volevano approdare in Grecia attraversando solo 40 metri di acqua. A quanti ci sono riusciti sono stati tolti portafogli, telefoni cellulari e lacci delle scarpe e sono stati rispediti indietro. Nel purgatorio del mondo che è diventata questa frontiera, c’è stata la solidarietà di cittadini anonimi e c’è stata la strumentalizzazione di Erdogan che ha portato qui migliaia di rifugiati con gli autobus; c’è stata anche una repressione molto dura da parte della Grecia che ha esaurito la sua generosità e che non vuole altri campi come quello di Moria. Ha avuto paura dell’Unione europea per un’altra crisi come quella del 2015.
Venerdì scorso i ministri degli esteri dell’Unione europea si sono incontrati in Croazia per discutere della questione. L’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, ha fatto appello ai rifugiati affinché non andassero al confine perché era chiuso. In realtà, l’Unione europea non ha motivo di temere “un’invasione” dei quasi quattro milioni di rifugiati presenti in Turchia. Non tutti si trovano in una situazione disperata come Assad o come quanti sono arrivati negli ultimi mesi della provincia siriana di Iblid. Molti hanno iniziato a stabilirsi. È la paura dell’Europa che offre al Presidente turco margine di manovra e opportunità per il suo progetto nazionalista di diventare un leader geostrategico di secondo livello con la sua agenda. Sembrano lontano i tempi in cui la Turchia bussava alle porte dell’Europa.
I ministri degli Esteri dell’Unione hanno respinto in coro il ricatto di Erdorgan che utilizza Assad e migliaia di rifugiati come lui. Ma la scorsa settimana l’Ue non ha fatto altro che cedere a questo ricatto. I viaggi di Borrell e Charles Michel, Presidente del Consiglio europeo, ad Ankara per promettere aiuti in cambio del contenimento sono lì a dimostrarlo.
La politica del pane di Karach non si è materializzata in Europa perché la debole identità del Vecchio continente non riconosce più l’universalità dei diritti, ha paura dell’altro. Ingigantisce un problema che avrebbe una soluzione. Non è facile, ma non è impossibile. Bisognerebbe realizzare la ripartizione concordata dei rifugiati, far funzionare gli hot spot per identificare coloro che entrano, fornire il sostegno necessario alla Grecia e ai Paesi del sud, evitare la reazione dei Paesi di Visegrad. Così non ci ritroveremmo in balia della pressione di Erdogan, né con la vergogna di infrangere il diritto internazionale. Sarebbe un’opportunità per la stanca Europa di distribuire pane e tetto come hanno fatto a Karach.
Assad torna al campo profughi improvvisato a Pazarkule. Non sa che la polizia turca non lo lascerà uscire domani. O Istanbul o niente. Quando il sole tramonta, alla stazione degli autobus di Edirne una famiglia di siriani si scalda con un fuoco acceso grazie alla legna che ha raccolto lungo l’autostrada. Lì vicino, Hussein, un iraniano, racconta a chi vuole ascoltarlo che ha lasciato il suo Paese perché da quando si è convertito al cristianesimo la sua vita è diventata molto difficile. E vive male anche in Turchia.