Ho sempre creduto nelle parole di Don Abbondio: “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”, come ha ricordato Giorgio Vittadini nel suo Editoriale. In realtà, i miei ultimi tre anni sono stati costellati da estreme e ardite forme di coraggio da parte della mia famiglia, dei miei amici e grazie a loro anche mie. Quindi anch’io mi sento di dire, con una buona dose di certezza, che sì, il coraggio lo possiamo trovare solo guardando a testimoni e amici che ci indicano la strada. Non ci sostituiscono né ci risparmiano dall’affrontare le salite, ma ci sostengono nel cammino.



Ripeto sempre a mia moglie che se sono riuscito ad attraversare momenti difficili (e magari ne vedremo altri a breve) è stato solo grazie alla sua tenacia e alla sua dolcezza, perché mi sono aggrappato a lei, la mia roccia, nei momenti di burrasca e di tempesta.

In queste settimane in molti mi hanno cercato, ponendomi domande, esprimendo perplessità, rivelando paure in merito all’emergenza sanitaria che si è creata con il coronavirus. Sono stati tutti colloqui interessanti, che mi hanno aiutato a rendermi sempre più conto che la natura dell’uomo è domanda, è relazione: quando ci assale la paura, dobbiamo domandare e guardare alle persone che ci stanno più a cuore.



Dobbiamo tenere costantemente davanti ai nostri occhi chi veramente ci vuole bene e chi sappiamo per certo che ci dice le cose come stanno.
Si sta diffondendo una paura, una mancanza di fiducia verso chi comunica, verso politici, dirigenti, perfino verso medici e infermieri (i veri eroi in prima linea in questo frangente), ma è proprio questa paura, se guardata fino in fondo con lealtà, che ci mette di fronte alla nostra vera essenza: di chi possiamo fidarci? Ci fidiamo di un Amico, sempre.

Mi sono permesso di fare dei calcoli i più precisi possibile. L’influenza classica in Italia (fonte: Iss), su 5-8 milioni di persone contagiate, provoca fino a 8mila decessi, con un tasso di letalità dello 0,1/0,16%. Il Covid-19 nel mondo (dati aggiornati a qualche giorno fa) annovera 80.346 contagiati, con 2.705 decessi, quindi con una mortalità pari al 3,4%: 30 volte circa più alta. In realtà, però, nel nostro paese una persona ha una probabilità di morire per la normale influenza pari a uno su 10mila, mentre con il coronavirus – al netto delle differenze significative tra le varie fasce d’età – questa probabilità, in base ai dati attuali di diffusione, è stimabile in uno su 120 milioni.



Le domande che si stanno ponendo le nostre istituzioni e l’opinione pubblica davanti a questa “infodemia” (epidemia informativa) non ci devono costringere a interrogarci sui programmi di comunicazione, sui social (che stanno giocando un ruolo importante rispetto al 2003 quando scoppiò l’epidemia della Sars, ben più grave e aggressiva) o sulla veridicità delle informazioni che arrivano dalla Cina; devono piuttosto aprirci gli occhi sulla nostra società. La politica, allora, si interroghi, senza superficialità, sulle ragioni di questa paura e soprattutto sugli esiti di quanto essa stessa ha seminato negli ultimi decenni.
Il coronavirus non lascerà più le cose come prima: dopo il suo passaggio saremo migliori o peggiori? Dipende da noi. Come tutte le grandi malattie che hanno segnato la storia dei popoli, essa può diventare un’occasione di ravvedimento e di conversione.

Sarà certo impopolare dirlo, ma le condizioni non possono essere più propizie: questo momento ci costringe a ripensare, a rifocalizzare quali sono le cose veramente importanti della nostra vita. Un caro amico da Rimini mi scrive: “Ho scoperto che non si può dare per scontato che i clienti ci siano, dobbiamo essere grati della loro presenza e preferenza. Dobbiamo essere grati del contributo che le nostre persone, con il lavoro, danno tutti i giorni per costruire nelle nostre aziende una società migliore”. E’ solo un esempio, ma ci aiuta a capire che ogni crisi può dare spazio al riemergere di una coscienza nuova e ri-generata in ciascuno di noi. Ci insegna a portare i pesi l’uno dell’altro. Ciascuno con le sue competenze, con le sue capacità, con il suo coraggio.

Resto profondamente colpito da alcuni amici, che in questi giorni affrontano enormi responsabilità, perché intuisco quanto sia faticoso per un direttore di un ospedale reggere in questa situazione la preoccupazione e l’ansia non solo per il destino dei pazienti ricoverati, ma anche per l’impegno eroico dei colleghi da giorni instancabilmente in prima linea.
Quando incontriamo un professionista, uno di quelli con la P maiuscola, ci sentiamo spesso dire: “Stai tranquillo, ci penso io”. Ma quel “ci penso io” non significa “non ti può accadere nulla”: sarebbe una presunzione falsa, una rassicurazione poco credibile. Piuttosto quelle parole vanno accolte come un “stai tranquillo, sono qui vicino, farò di tutto per te”.
Fidiamoci, sosteniamoci e diamoci la mano. Meno autosufficienti ci scopriamo, più ci riscopriamo ricchi perché mai soli.