Il protagonista indiscusso del sistema Paese, in questo momento, è il Servizio sanitario nazionale. Dalle notizie di questi giorni sappiamo che è sotto pressione al punto da far temere per la sua tenuta; ci viene anche detto che è un sistema di eccellenza per strutture, innovatività della ricerca e competenza del personale medico, infermieristico e di laboratorio, che sta mostrando, proprio in questi giorni, anche un’abnegazione encomiabile.
Un’indagine di Bloomberg del 2015 classificava l’Italia al secondo posto nel mondo per la buona salute dei suoi abitanti e al primo posto in Europa.
Ma qual è la sua particolarità? Oltre all’efficacia e l’universalità del servizio: un’assistenza di qualità per tutti i cittadini indipendentemente dalla loro ricchezza. Una grande conquista di civiltà, la cui cifra è il valore riconosciuto a ogni singola persona. Qualche anno fa, un uomo proveniente dal Terzo mondo, affetto da gravi problemi oncologici e varie complicanze, ospite nel nostro Paese, fu sottoposto a un’operazione chirurgica particolarmente complessa, durata quattordici ore e riuscita al meglio. Ricordo che un mio collega mi riferì la notizia, aggiungendo di essere fiero di abitare in un Paese dove un’equipe chirurgica si era dedicata anima e corpo a salvare un uomo senza risorse in quelle condizioni.
Sappiamo, anche per esperienza diretta, che la sanità al Nord è diversa da quella del Sud e che quest’ultima, pur essendo ricca di eccellenze, patisce particolarmente i limiti della Pubblica amministrazione. Altri problemi sono legati al finanziamento. La riduzione media annuale della spesa sanitaria tra il 2010 e il 2016 è stata del meno 13,2 per cento, corrispondente a un valore pro capite nel 2016 di 1.846 euro, anziché di 2.232,6 euro di spesa pubblica. Negli ultimi 10 anni sono stati cancellati 70 mila posti letto, mancano 8 mila medici e 35 mila infermieri. Per la prima volta in Italia il sistema delle assicurazioni private, privilegio solo per alcuni, sta affermandosi e rappresenta già il 20 per cento del mercato sanitario.
In tempo di scarsità di risorse e soprattutto di vincoli di bilancio, come si può mantenere un sistema di qualità ed efficiente? È la domanda che questo e i prossimi governi si troveranno ad affrontare. Ma per farlo non potranno evitare di porsi un altro problema: lasciamo che il sistema scivoli piano piano verso un modello che divide il trattamento in base alla capacità di spesa dei pazienti, oppure lottiamo perché mantenga il suo carattere universalistico?
In altre parole, siamo destinati ad “americanizzarci”? Come mi diceva un amico medico a Boston, puoi essere curato a livelli di grande qualità negli ospedali del centro, se puoi permetterteli, o rischiare la vita a trenta miglia di distanza in nosocomi di bassa qualità. E bisognerebbe anche riflettere che il sistema americano, secondo i dati Ocse, costava nel 2017 il 17,1 per cento del Pil contro l’8,9 della sanità italiana. Non certo per il bene del paziente: uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association a marzo 2018 afferma che il maggior esborso del sistema è da associarsi all’alto costo dei farmaci, del personale ospedaliero e da elevati costi amministrativi. Nonostante queste differenze di spesa, nel 2016 l’aspettativa media di vita alla nascita era in Italia di 82,5 anni contro i 78,7 anni negli Stati Uniti.
Detto questo, un altro problema è emerso proprio in questi giorni: il coordinamento tra Stato centrale e Regioni che gestiscono la sanità.
In Italia non esiste un sistema sanitario ma 20 sistemi regionali diversi e l’esodo continuo da regioni come Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania verso altre come Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Lazio, Toscana e Piemonte per le patologie più importanti quali quelle oncologiche, cardiache, sanitarie lo dimostra è un problema che deve essere affrontato. Un sistema articolato ha i suoi vantaggi se è ben governato.
Ci sono questioni che debbono essere decise centralmente, come: i livelli essenziali di assistenza, la strategia di fronte a una emergenza sanitaria, il trattamento del personale sanitario, la classificazione degli ospedali, il rapporto territorio-ospedali, i criteri di valutazione della qualità e della spesa.
Sulla base di tutto questo il Governo centrale non deve né imporsi alle Regioni, ad esempio con tagli orizzontali, né lasciarle muovere in modo anarchico. Un sistema articolato va governato con un dialogo continuo, motivato perché l’autonomia è un valore, sia per il centro che per le regioni: vedi la Germania i suoi lander e la camera federale. Occorre che ci sia una vera politica, che è dialogo fra istituzioni, anche se governate da forze politiche competitive tra loro. Occorre una conciliazione di interessi contrapposti, una ricerca continua di compromessi virtuosi per non retrocedere in civiltà.