Abbiamo tutti, mi sembra, un gran bisogno di buone notizie. Non so voi, ma io che seguo le vicende italiane dalla Russia, in questi ultimi dieci giorni mi sono sorpresa a entrare più volte al giorno in internet per controllare l’evolversi del contagio da coronavirus, dei decessi e così via. E il sentimento dominante, il «virus» che percepivo aleggiare nell’aria ancor più forte del Covid-19, nonostante il clima di indubbia corresponsabilità civile, la consapevolezza che le strutture mediche stavano dando il meglio e così via, era la nuova percezione di precarietà che all’improvviso è entrata da padrona nelle vite dei singoli come dei meccanismi economici, sociali, statali, a livello nazionale e, di ora in ora, internazionale. È questa precarietà a tagliarci le gambe, prima ancora del coronavirus – anche qui in Russia dove del Covid-19 sembrerebbe non esserci traccia…



Ma una buona notizia c’è: la si è vista e la si vede circolare, sui media e sui social, dove la misura della sua amplificazione spontanea (il samizdat del XXI secolo!), ci parla della sua vitalità. L’ho vista in un gran numero di lettere, comunicati, testimonianze di santi di ieri e di oggi, brani di autori letterari che molti hanno riscoperto per sé e offerto agli altri. In sintesi, la buona notizia è che questa precarietà – per secoli bagaglio di ogni essere umano in rapporto con il Creatore, ma dall’età dell’Illuminismo e del Positivismo sempre più nascosta ed esorcizzata – può trasformarsi in realtà in un potente strumento a nostra disposizione, come persone e come società.



Questa nostra imprevista precarietà, in primo luogo, può abilitarci a vedere e comprendere un po’ di più, sulla base della nostra nuova, pur minimale, esperienza, ciò che finora guardavamo a sazietà in televisione e sulla stampa – catastrofi umanitarie, crisi, massacri, conflitti in ogni regione del mondo, dall’Asia all’Africa, dall’America latina al Medio Oriente – elaborando tutti questi fatti attraverso il filtro di un’indifferenza generata dalla sicurezza che, tanto, queste cose da noi non succedono e non succederanno mai. «Sono uomo e tutto ciò che è umano mi interessa»: la frase di Terenzio, ripresa nel tempo da tante culture alle più diverse latitudini, forse può tornare a costituire il tessuto di una solidarietà che, pur praticata oggi da tanti, stenta a farsi mentalità, cultura. È questa, probabilmente, la conoscenza di cui ha parlato proprio in questi giorni il presidente Mattarella, affermando: «La conoscenza aiuta la responsabilità e costituisce un forte antidoto a paure irrazionali e immotivate che inducono a comportamenti senza ragione e senza beneficio, come avviene talvolta anche in questi giorni».



Negli anni ’20 Michail Bulgakov scrisse due racconti – Uova fatali e Cuore di cane – sul tema delle manipolazioni irresponsabili della natura da parte dell’uomo: nell’uno assistiamo a un catastrofico tentativo di rimediare a una moria di polli che rischia di mettere a repentaglio il prestigio del regime sovietico agli occhi delle potenze straniere; nell’altro, a un agghiacciante esperimento, messo a punto per trovare la formula dell’eterna giovinezza, che si trasforma nella creazione di un mostro. Ma la vera degenerazione – in entrambi i casi – non è causata dalla scienza (che, anzi, fa il possibile per scongiurarla avvertendo i propri errori e la propria precarietà), bensì dal «virus sociale» che Bulgakov individua nell’individualismo e nell’irresponsabilità incentivati da un’ideologia che ha smarrito il senso dell’uomo.

«Che cos’è questa sua disorganizzazione? Una vecchia con la gruccia? Una strega che ha rotto tutti i vetri, ha spento tutte le lampade? … Il problema sta nelle teste!», tuona il professor Preobraženskij in Cuore di cane, di fronte allo sfascio generale a cui dal ’17 sta assistendo. E a scongiurare la catastrofe, in Uova fatali, è il «Deus frigoris ex machina» (un bel titolo in latino per consentire la pubblicazione del nome di Dio in anni in cui, in russo, sarebbe stato immediatamente depennato dalla censura!), cioè un «gelo inaudito» calato improvvisamente sulla Russia nella notte del 19 agosto (festa della Trasfigurazione, secondo il calendario ortodosso), che uccide tutti i mostri che stanno distruggendo il Paese – creature sconsideratamente generate dai funzionari del partito nel loro delirio di onnipotenza. Insomma, un ritorno all’uomo, alla sua precarietà – vegliata da una Presenza imprevedibile e provvidenziale.

La precarietà, in fondo, è il rischio che ci assumiamo in ogni rapporto, dove non c’è nulla di scontato senza un nuovo inizio, giorno per giorno. E, viceversa, nel rapporto così vissuto – a maggior ragione, con noi stessi e con Dio – possiamo trovare la nostra sicurezza. Come scriveva in tempi non sospetti (fine anni ’90), il filosofo russo Vladimir Bibichin, a proposito delle divisioni createsi nel mondo: «Nessuno verrà in nostro aiuto se formuliamo progetti esclusivamente temporali, mentre per i fini eterni Dio verrà in nostro aiuto. La situazione reale del mondo, per quanto solida possa sembrare, non può essere il fondamento della nostra sicurezza. L’uomo vecchio continua a pensare in termini di organizzazioni, di autorità, di gruppi di pressione. Ma il mondo è segretamente governato da Colui che sa convertire il male in bene; se così non fosse, la sua stessa esistenza sarebbe risultata impossibile già da molto tempo».