A chi mi chiedesse dove ci potrà portare quest’emergenza universale del coronavirus, cosa ci dovrà insegnare, come cambierà le nostre vite e i nostri assetti sociali – francamente non saprei dare risposta. E non perché manchino le analisi, le previsioni, le più diverse interpretazioni dei dati. Anzi, esse dilagano da ogni parte, sebbene raramente riescano a chiarificare il giudizio, e piuttosto che aprire il nostro campo visivo il più delle volte lo restringono.
Questo non vuol dire affatto che siano sbagliate o non siano utili. È inevitabile, e anche necessario, che i diversi aspetti di questa crisi – sanitaria, economica, sociale, culturale, educativa, psicologica… – vengano di volta in volta evidenziati e soppesati. E ogni approccio ci darà nuovi elementi per capire quello che sta succedendo, ormai in tutto il mondo. Ma questi approcci, per quanto appunto necessari, non sono forse ancora sufficienti a darci la chiave per affrontare la situazione.
Attraverso tutte queste analisi, è di un punto sintetico che abbiamo bisogno. Non certo per ridurre la complessità e l’enormità del problema che ci sta assalendo, ma per vederlo in faccia veramente. Non possiamo accontentarci di cercare solo i “colpevoli”, che pure ci saranno: pensiamo ad esempio alle politiche liberiste di riduzione della spesa pubblica in sanità o al rischio che l’emergenza virale possa essere usata dagli Stati come occasione per una politica emergenziale di tipo autoritario. Né possiamo fermarci solo a stigmatizzare le responsabilità dovute al dominio incontrollato dell’uomo sulla natura o all’ideologia del profitto come unico scopo della vita: e chi potrebbe negare che tutti noi siamo tentati di rinchiuderci in questo infernale meccanismo del successo ad ogni costo?
Ma nemmeno possiamo rispondere alla sfida solo appellandoci a una nuova etica, non più centrata sulla potenza ma sulla fragilità, non più sulla violenza ma sulla responsabilità: anche se naturalmente nessuno potrà ignorare l’urgenza di un cambiamento nei nostri comportamenti pubblici e privati imposto da questa circostanza.
Il fatto è che questi tentativi di “elaborare il lutto” della pandemia non riescono a risolvere il contraccolpo che essa sta provocando nelle nostre esistenze, o a vincere il disorientamento che ci prende vedendo il numero delle vittime e le nostre città forzatamente deserte, o a sconfiggere la paura figlia di un’incertezza che non riusciamo a esorcizzare. Aspettiamo il vaccino, certo, come il punto a partire dal quale potremo dire di essere finalmente fuori dalla crisi. Ma la questione è cosa sta avvenendo ora, mentre aspettiamo.
È quasi struggente l’ingenuità con cui continuiamo a ripeterci che tutto andrà bene e che insieme ce la faremo restando chiusi in casa. Ciascuno di noi lo desidera e se lo augura, naturalmente. Ma ciò di cui abbiamo bisogno è scoprire se c’è qualcosa che adesso ci possa far fare un’esperienza di bene, per noi e per tutti. O la vita è ora, o non è. Dobbiamo certo preparare il futuro, ma solo se c’è un moto e un motivo nel presente che ci permetta di camminare, e se questo presente è pieno della coscienza del nostro passato, della memoria della nostra provenienza.
Allora forse il punto di sintesi non dobbiamo pensarlo come una somma finale di tutti i fattori analizzati, ma come un punto di partenza. E questo punto è in noi; anzi, noi stessi siamo questo punto. E non perché dobbiamo dichiararci colpevoli (anche se per alcuni aspetti sarà anche vero), e neppure perché dobbiamo ripiegarci narcisisticamente su noi stessi. Questo punto è quello che, unico, può dare una prospettiva al nostro sguardo. Ci vuole uno che guardi la crisi per poterla svelare nella sua portata; ci vuole uno che la giudichi “criticamente” per poterla affrontare.
Ed è in questo che mi pare consista la svolta culturale decisiva – anche se ancora sottotraccia – di questo tempo di “coronavirus”: la possibilità e l’occasione, drammatica ma al tempo stesso affascinante, di scoprire in noi il criterio per giudicare la sfida imprevista del reale, per accorgerci della nostra capacità, non solo di guardare, ma di vedere guardando ciò che è in gioco per noi nel mondo e nella vita. Questa capacità, questo criterio di misura sta nella competenza più semplice ma anche più colossale della nostra ragione: domandare il perché ultimo di sé e del mondo.
Ma non solo questo. Se noi siamo capaci di cercare il significato delle cose, al tempo stesso abbiamo anche la capacità e la competenza di riconoscere – se c’è – quello che risponde veramente alla nostra domanda, ciò che corrisponde veramente al nostro bisogno di senso. Questa natura inquieta del nostro io (inquieta perché non ci basta niente, se non “tutto”, cioè un senso infinito per cui stare al mondo) non è un effetto dell’emergenza di questi giorni, ma senza dubbio quello che sta accadendo l’ha come fatta emergere dagli schemi, dai pregiudizi, dalle sicurezze più o meno false in cui il nostro io si era auto-blindato.
Scoprire tutto questo, ora, è per noi la possibilità più ragionevole per affrontare il domani. Ci sembra poco, come sembrerebbe troppo poco l’io di ciascuno di noi di fronte agli immani e spesso incontrollabili meccanismi della natura e della storia. Ma senza di esso noi non capiremmo tutta la criticità di quel che accade, e ci ridurremmo ad essere parti anonime della crisi. Il che starebbe a dire che i poveri morti di questa emergenza, quelli le cui salme abbiamo visto sfilare nei camion militari, sono spiacevoli conseguenze del caos, e nient’altro. Solo numeri sulla curva del virus. Ma noi possiamo dire che non è così – e non per un’illusoria consolazione, bensì per l’esperienza che facciamo ora di tutto il bisogno del nostro io. È questo nostro io il segno, e anche il pegno, che siamo fatti per il bene e per il vero, non per la distruzione e la menzogna.
Giustamente molti di noi si rammaricano di non poter vivere la Pasqua con i propri cari e i propri amici, ma soli in casa. In fondo perché ci dispiace? Perché, per tutti, è la memoria che c’è stato e continua ad esserci un punto nel tempo in cui abbiamo incrociato una risposta davvero adeguata alla nostra domanda di senso. La risposta possibile solo ad Uno che vince la morte. In fondo anche questo lo sapevamo – culturalmente – da tanto tempo. E dall’essere scontato è scivolato nell’essere sconosciuto. Oggi può essere ricordato – e di nuovo incontrato – come se accadesse ora. Anzi, perché accade ora.
Come ha scritto Thomas S. Eliot, alla fine dei Quattro quartetti, un poema dedicato al senso del tempo:
Noi non cesseremo la nostra esplorazione
E alla fine di tutto il nostro esplorare
Arriveremo al punto da cui eravamo partiti
E conosceremo il luogo per la prima volta.
Attraversando il cancello sconosciuto e rammemorato
Quando l’ultima terra che ci restava da scoprire
È quella del nostro cominciare
(trad. nostra).