Senza parlamento, solo confusione

L'emergenza che stiamo attraversando sta purtroppo mostrando tutta la fragilità del nostro sistema democratico

Qualche giorno fa parlavo via zoom con un amico imprenditore e ho visto sul suo tavolo un libro scritto da Luigi Einaudi. Non ho potuto fare a meno di pensare che quell’epoca, seguita alla guerra, sia un utile riferimento per la ripartenza nell’attuale situazione di pandemia, molto più che il 2019.

L’emergenza che stiamo attraversando sta mostrando tutta la fragilità del nostro sistema democratico e l’estrema difficoltà, ormai di lunga data, con cui la nostra convivenza civile riesce a far emergere posizioni condivise che poi dovrebbero diventare leggi. È impressionante come in questa crisi sia sottovalutato uno dei tre poteri, quello legislativo, e come questo appaia lontano dalle formazioni sociali che pur dovrebbe rappresentare.



Stiamo assistendo a una votazione continua di decreti con poca o nulla discussione alle Camere. L’emergenza impone decisioni più rapide, è vero, ma proprio per la gravità e la natura inedita dei fatti che stiamo vivendo dovrebbe rendere ancora più necessari momenti di confronto, in cui ci si possa aiutare ad entrare criticamente nel merito di problemi tanto gravi. Si capisce che nei periodi di difficoltà le persone si facciano tentare da derive autoritarie, nell’illusione di risolvere più rapidamente i problemi. L’esempio dell’Ungheria, in cui il Parlamento si è autosospeso, è il più calzante. 



Ed è vero che in Cina hanno impiegato 4 anni per ampliare un aeroporto, mentre ce ne sono voluti 10 a Londra. Ma questo è successo perché in Europa si tiene conto delle norme anti-inquinamento, della tutela della falda acquifera e dell’impatto ambientale in generale, compreso il rispetto della fauna e della flora rara. 

Winston Churchill nemmeno durante la guerra ha mai voluto saltare i passaggi nei processi decisionali e il Parlamento non ha mai sospeso la sua attività.

Da noi il Parlamento ha cominciato a perdere d’importanza nella cosiddetta Seconda Repubblica, quando si è affermata l’idea che concentrare il potere in leader “illuminati” fosse sufficiente per governare e che il lavoro e il confronto con le centinaia di parlamentari eletti fosse superfluo. Il partito ha necessità di creare leader, ma il leader deve lasciare spazio alla sua minoranza perché questo agevola la rappresentanza e il confronto anche in Parlamento. Il problema è però ancora più radicale e nasce nel come, a un certo punto, sono state concepite le nuove formazioni politiche: le segreterie dei partiti scelgono i candidati che quindi non vengono più selezionati grazie al lavoro sul territorio, alla competenza e alla capacità di proposta. In questo modo il Parlamento ha perso il rapporto con l’elettorato. Ma quel che è peggio è che questo legame è stato reciso anche a causa della crisi dei corpi intermedi.



Eppure, le competenze più importanti oggi sono quelle di chi sta nella realtà sociale e intercetta i problemi e i cambiamenti in atto. Ad esempio, tutto il mondo del Terzo settore offrirebbe adesso un grande contributo in virtù dell’esperienza maturata a contatto con i problemi concreti e – cosa di non poco conto – grazie anche alla sua spinta ideale.

Come si vede anche in questi giorni, la politica è stata soffocata da un processo di personalizzazione e di spettacolarizzazione che trasforma i cittadini in audience privandoli della percezione di essere parte in causa. Fanno impressione i botta e risposta a distanza, la ricerca di battute a effetto che possono essere facilmente riportate sui giornali, l’uso ossessivo dei social media. Immagino che il lavoro nelle commissioni abbia tutt’altro tono, ma i dibattiti ripresi in Parlamento sembrano più comizi che confronti. E se si tratta di un gioco delle parti dedicato alla propria audience, bastano i giornali. Non può non venire il dubbio che la proliferazione delle task force sia un modo per coprire l’incapacità di impostare un metodo di lavoro utile e prendere delle decisioni. 

La campagna di anti-politica avviata da tempo ha poi completato l’opera facendo venire meno nel popolo il desiderio e, in fondo, la responsabilità di costruire la vita pubblica.

Che cosa tenere caro di quello che avvenne a partire dall’epoca di Einaudi? 

Ad esempio, il fatto che deputati e senatori eletti giungevano in Parlamento dopo una forte selezione naturale da enti locali, sindacati, associazioni di categoria, movimenti e usavano la competenza acquisita in tanti anni di lavoro e di impegno di diverso tipo per la collettività. 

Che le leggi e i provvedimenti fossero di iniziativa parlamentare o governativa il lavoro nelle commissioni le affinava, giungendo spesso a compromessi virtuosi o a provvedimenti bipartisan. 

Perché l’economia non è solo la finanziaria, ma è fatta di miriadi di interventi a servizio di territori, settori, tipologie varie di attività economiche. Settori determinanti come l’istruzione, la sanità, il welfare, le pensioni chiedono interventi dettati da una grande visione e non l’alternarsi di provvedimenti in contrasto l’uno con l’altro. 

Allora, se vogliamo affrontare questa situazione drammatica dobbiamo come i costituenti ri-intermediare e ricostruire l’importanza di luoghi dove tutto un popolo può concorrere al bene comune. Ma il confronto deve essere sostanza, percorso di conoscenza reale, abbandono del vantaggio personale per una strada condivisa, a maggior ragione vista l’emergenza. Qui si gioca la responsabilità di chi governa.

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