In questi giorni, ogni giornale o sito web che si rispetti pubblica un rapporto giornaliero sull’isolamento da coronavirus. Molto esemplificativo è, per esempio, il contenuto del rapporto pubblicato nella Agencia Magnum. Senza mettersi d’accordo, molti dei migliori fotografi del mondo ritraggono bambini affacciati alle finestre, bambini che giocano in casa, bambini che dormono sicuri. Come se lo sguardo di un bambino verso un mondo strano, verso una realtà misteriosa, si fosse trasformato in un tesoro.



Su The New York  Reviews  of Books, Carina Del Valle, una giovane scrittrice portoricana che vive a Manhattan, rifletteva qualche giorno fa su cosa aveva imparato con l’isolamento. Si è così resa conto del suo rapporto infantile con il mondo, di quella parte infantile che si dimostra non ancora matura per relazionarsi con qualcosa di reale e distinto da se stessi. Del Valle ci racconta che è stata molto importante per lei la lettura dello psicanalista D.W. Winnicott (un metodista britannico che ha studiato la relazione tra madre e lattante). In particolare, la descrizione dei giocattoli come “oggetti di transizione”, che permettono al bambino di costruirsi uno spazio di riposo (resting place) nella sua apertura a ciò che non è l’io infantile. Perché, in realtà, “c’è un continuo lavoro umano per mantenere la realtà interna e quella esterna separate, ma collegate”. Nel citare queste parole dello psicanalista, Del Valle cede e confessa di vergognarsi della sua debolezza: “vergognosa della mia fame di mantenere un controllo completo di ciò che mi circonda”.  



La pandemia ci ha invitato a tornare a quel momento di maturazione in cui la realtà non può più essere considerata come un prolungamento di noi stessi. Del Valle sogna giocattoli con cui riposarsi, oggetti di transizione, luoghi tranquilli e sicuri, ma sa che non esistono o, quantomeno, che non sono sufficienti per controllare la caparbietà della realtà, diversa dal suo, dal nostro, io di bambini autoreferenziali. Non sembra esserci altra opzione (anche se si può sempre fuggire) che entrare in una realtà dalla quale dipendiamo e cercare se in essa vi è qualcosa di più che una catena di RNA fuori controllo, se prevale qualcosa di positivo che non ci faccia sognare spazi di riposo.



In realtà, prima che il Covid-19 cominciasse a infettare gli umani, la reazione alla globalizzazione aveva avuto molto a che fare con la costruzione di “oggetti di transizione”, presunti placebo. Fino ad allora, il mondo liberale si è aggrappato a un’illusione ottimista: nel nuovo pianeta post-occidentale, i valori illuministi continuavano a dare struttura a una globalizzazione conveniente, necessaria, positiva, ma asimmetrica nell’ambito culturale e antropologico. Mentre cresceva il miraggio di un mondo aperto da una globalizzazione economica e da una spolverata di cultura comune, in ogni angolo del mondo gli anticorpi dell’identitarismo hanno costruito a qualunque prezzo spazi di controllo e di riposo, di non realtà. E abbiamo avuto il sovranismo di Trump e tutti i populismi di destra e di sinistra in Europa.

Questa reazione infantile si appoggia sempre su una presunta tradizione che viene strumentalizzata a fini politici. Nei Paesi a maggioranza musulmana abbiamo assistito a una terza ondata di radicalizzazione, che si aggiunge a quella del ’78 e a quella dell’inizio del ventesimo secolo, quando alcuni dirigenti sunniti e sciiti cercarono ispirazione nei rivoluzionari europei. La stessa cosa ha fatto Modi in India.

La prima reazione alla pandemia assomiglia molto alle scenate infantili della precedente anti-globalizzazione, con la ricerca di un capro espiatorio. Trump ha suggerito di iniettarsi del disinfettante e continua come suo solito. L’India ha aumentato la persecuzione dei musulmani e l’islamismo politico del Pakistan ha approfittato dell’occasione per un giro di vite. E la Cina ha incrementato il suo nazionalismo totalitario. La reazione di Xi Jinping la scorsa settimana quando sono iniziate le richieste di assunzione di responsabilità per non aver avvisato per tempo della diffusione della pandemia (il regime ha negato fino al 20 gennaio la trasmissione del virus tra umani, quando Taiwan aveva denunciato che era già in corso da dicembre) è molto significativa: negazione della realtà, più nazionalismo, più repressione. Vedremo se, con l’arrivo della recessione economica in Europa, il populismo tornerà a guadagnare terreno. La pandemia non garantisce automaticamente l’accettazione di una realtà distinta e irriducibile di fronte alla pressione infantile tesa a tenere tutto sotto controllo.

Alla fine, tutto dipenderà dal grado di apprendimento che abbiamo raggiunto in questi mesi sulla “realtà di fuori”. Abbiamo visto che questa realtà contiene minacce in forma di virus, ma che è anche fatta di una crescente interdipendenza, di una socialità tenace che si dava talvolta per scontata, di “altri” che ci hanno permesso di essere noi stessi, di un’energia sociale (sanitari, volontari) che non può essere ridotta alle categorie ideologiche nelle quali si suole definire il mercato e lo Stato, di un’universalità non astratta e più profonda della globalizzazione commerciale (positiva) che ci unisce nel dolore e nella compassione. Sono dati, non giocattoli per consolarci.

La questione è ora fare un esercizio critico su cosa tutto ciò significa per la vita comune, per l’economia, per il rinnovamento della democrazia. Senza questo esercizio, “la realtà di fuori” perde tutta la sua ricchezza e torneremo a sognare di poter metterci in salvo.