Il diritto-dovere di lavorare

L'economia diffusa e la società dei territori vogliono ripartire perché si sentono pronte. Si tratta di un processo che non può non essere guidato

La scorsa settimana, in questo spazio, abbiamo salutato come una buona notizia il preannuncio della riapertura dell’Azienda-Italia il 4 maggio. Restiamo dell’idea che fosse, anzi: che sia tuttora, una buona notizia, dal momento che il Governo non l’ha ancora confermata ma neppure smentita. Da lunedì – e questa è una buona notizia inconfutabile – dietro una selva di sigle Ateco decine di migliaia di imprese hanno intanto ripreso a lavorare: anche se in un’immensa zona grigia affidata al silenzio-assenso dei Prefetti. Dentro un “patto di legalità” alimentato dal basso da imprenditori, lavoratori e servitori dello Stato – nell’interesse del Paese – assai più che dall’azione del Governo.



Fra le notizie di questo inizio di settimana vi è certamente la prima visita del premier Giuseppe Conte in Lombardia, più di due mesi dopo il giorno-zero di Codogno. La notizia, in sé, non è cattiva. Sarebbe stata davvero buona la notizia che Conte – e i suoi ministri, a cominciare da quello della Salute, Roberto Speranza –  fossero saliti prima a Milano, Bergamo, Brescia. Avrebbero, per esempio, fatto bene e venirvi all’indomani del 17 marzo, quando il decreto Cura Italia ha stanziato sulla carta 25 miliardi per gestire in maniera pronta ed efficace la Fase 1: per milioni di lavoratori dipendenti e autonomi rimasti senza reddito e per milioni di italiani a corto di mascherine, ventilatori, tamponi e soprattutto di medici e infermieri. Conte e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri avrebbero potuto fare un salto nella Milano delle banche anche per spiegare il decreto liquidità, varato lo scorso 8 aprile.



L’altra sera Conte ha incontrato anche il presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi: finora leader degli industriali milanesi e da sempre stretto assertore di una riapertura decisa in altrettanto decise condizioni di sicurezza, su cui il sistema manifatturiero ha già garantito il suo impegno totale. Se il Premier ha voluto confrontarsi con Bonomi nel centro della zona rossa lombarda è lecito attendersi – o almeno augurarsi  – che stia entrando in una sua personale “fase 2”: di nuovo atteggiamento istituzionale verso l’Azienda-Paese, formalmente soggetta alla sua responsabilità di governo. 



A Milano, per la prima volta, Conte ha indossato la mascherina: imitando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il 25 aprile all’Altare della Patria. Un esempio fra tanti, quello offerto dal Capo dello Stato: le misure di sicurezza – quelle della fase 2 che il Governo deve completare e soprattutto concretizzare – servono perché il Paese riparta, non perché resti in incerto lockdown. Devono essere approntate al più presto perché tutti – dal Presidente della Repubblica fino all’ultimo laboratorio artigiano e appena possibile anche nelle scuole – si rimettano a fare ciò che possono e ciò che devono.  

La politica è responsabilità delle decisioni. Con tutte le cautele e precondizioni necessarie, la parola rimane “ripartenza”. L’economia diffusa e la società dei territori vogliono ripartire perché si sentono pronte. Ma in un Paese come l’Italia è un processo che non può non venir guidato. E in una democrazia i cittadini affidano alla politica un mandato istituzionale perché governi. Perché assuma decisioni compiutamente responsabili. 

P.S: Il presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, appena ristabilitasi dal Covid-19, ha pronunciato ieri la relazione annuale della Consulta. Ha rammentato che la Costituzione in vigore da 72 anni non contempla “un diritto speciale per tempi eccezionali”. I diritti e i doveri degli italiani sono sempre quelli di una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

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