Un messaggio dal Mezzogiorno che combatte

C’è un Mezzogiorno che combatte con successo contro l’emergenza coronavirus. E lancia un messaggio: dalla crisi si esce assieme, senza contrapposizioni

Il Mezzogiorno guarda in lontananza la cresta dello tsunami che ha invaso le terre del Nord, sperando che l’alta marea che si avvicina non diventi una furiosa onda che potrebbe sconquassare le sue strutture sanitarie provate da decenni di austerity. Una asfissia finanziaria imposta dalle scellerate politiche di contenimento della spesa che, con tagli lineari indiscriminati, ha depauperato di risorse, personale e strutture quei siti che, da ospedali in difficoltà all’inizio del ventennio della caccia alla casta, ora somigliano, in troppi casi, a casematte di cemento armato in cui vagano coraggiosi operatori senza mezzi.



Chi ha resistito nella guerra dei tagli, per sorte o abilità, come il Cotugno di Napoli, offre una immagine internazionale del Paese, non del Mezzogiorno, da applausi. Nel servizio di Sky International le lodi e lo stupore positivo del classico viaggiatore del Nord Europa che attraversa la penisola, sono commoventi. Racconta di procedure uniche utilizzate in quel nosocomio, di professionalità individuali che si trasformano in servizio collettivo e in un dato che lascia tutti senza parole. Pur essendo il principale presidio ospedaliero anti-Covid del Mezzogiorno, con centinaia di ricoverati già da inizio crisi, non vi è alcun contagiato tra i sanitari. Un risultato già questo, che si unisce ai percorsi terapeutici innovativi che, come in altre strutture, lì si sperimentano.



Negli altri ospedali del Mezzogiorno non è sempre così. Otre alle eccellenze, in tante zone soprattutto in Calabria e Sicilia, la sanità è lontana anni luce dal Cotugno, e sarà lì che, se mai l’onda arriverà, picchierà più duro. Le settimane rubate al tempo grazie al lockdown pare abbiano prodotto qualche effetto e sarà compito delle popolazioni riuscire a seguire i nuovi protocolli sociali, se vorranno evitare il disastro. Quando il dardo è annunciato, arriva più lento, e di certo molti oggi hanno maggiore consapevolezza e qualche risorsa in più.

Non sembra però utile, a tratti inopportuno, ed in alcuni casi intollerabile, che i giorni della sofferenza del Paese siano occasione per mettere un territorio o una comunità contro l’altra. Il Paese è uno ed è fatto delle competenze di persone nate e che lavorano nel Mezzogiorno come a Bergamo. Non esiste alcuna supremazia territoriale o mood ambientale che giustifichi la sorte per ora migliore del Mezzogiorno, come qualche commentatore azzarda, non è tempo di rivalse o tifoserie, non può essere il tempo in cui la malasorte o la fortuna o la storia dei territori siano usati per narrare delle divisioni che ormai esistono solo nella mente di chi vede in piccolo il futuro del Paese. Il Mezzogiorno resta la migliore opportunità di crescita anche per il periodo post Covid, perché resta lì il maggior potenziale di sviluppo, e il Nord resta il motore a cui offrire ogni sostegno per dare forza al futuro del Paese.



Giocare con la contrapposizione, come alcuni fanno da giorni dal Sud e dal Nord, cercando in questa infantile e stupida visione uno strapuntino per i click e per le battute facili è da irresponsabili. Sul Carso morirono migliaia di calabresi, l’Eni che sviluppò il Mezzogiorno era guidata da un padano, i migliori manager si contornano di risorse umane che vengono da tutto il Paese e le eccellenze del Paese sono distribuite in modo, certamente asimmetrico, ma restano presenti anche in zone che hanno sofferto di una innegabile asfissia di risorse.

Il fatto è che se chiediamo all’Europa di accogliere il Paese e se poniamo il tema della solidarietà tra popoli, cercando di spiegare le nostre giuste ragioni a olandesi e finlandesi, certo non possiamo ridurci a fare tra noi quello che gli europei fanno con noi. Così pare abbia ragionato il ministro per il Mezzogiorno Provenzano che, alla notizia che una rimodulazione dei fondi europei avrebbe comportato un taglio di risorse al Mezzogiorno, ha risposto che mai lo avrebbe consentito. È un segnale importante che si continui a guardare alle cose da fare e che, se qualcuno ha avuto la tentazione sia stato stoppato, mantenendo una visione complessiva del Paese guardando alle necessità di tutti i cittadini. È un modo concreto, come il sostegno a chi non ha un lavoro regolare, per dare oggi a chi ha bisogno e chiedere domani a chi ha ricevuto di restituire con impegno e lavoro. Questa crisi può e deve essere l’occasione per andare oltre le paratie territoriali foraggiate dai campanilismi e uscirne come popolo, come comunità.

Diversamente, il prezzo che pagheremo sarà enorme. Se il Paese non abbandona immediatamente questa provinciale e ormai irrealistica visione del futuro, se non ci vaccineremo le menti dal virus del secessionismo di fatto, la crisi post Covid dilanierà le comunità e renderà il recupero lungo e difficile.

Questa crisi impone a tutti gli italiani di essere parte del percorso, come chiediamo a tutti gli europei di fare concretamente atti di solidarietà e non solo illuminare col tricolore i monumenti.

Tutte le volte che vi verrà proposto o vi verrà a mente un nuovo motivo, una foto o un fondo che richiama a questa tifoseria da stadio, ricordate che gli stadi sono vuoti e che ci attende una marcia comune in cui, se non sapremo sostenerci a vicenda, verremo giù assieme.

Chi guiderà questa marcia dovrà avere chiaro che non ne usciremo senza Europa e non ne usciremo senza un Paese unito. Il futuro nasce da questa consapevolezza e dalla maturità con cui sapremo mettere da parte chi queste divisioni da irresponsabile con la mente ancora agli anni ’90 le alimenta e le usa.

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