Il mortifero effetto del coronavirus che ha chiuso in quattro mura oltre tre miliardi di abitanti del pianeta è stato per alcuni, una minoranza, l’occasione per uscire dalle mura alte delle carceri. Tanti, troppi, condannati in via definitiva si sono visti riconoscere nel nostro Paese il diritto ad uscire dalle carceri e a scontare in regime domiciliare i residui di pena. Troppi tra loro sono condannati per reati associativi mafiosi, mandati in carcere dopo anni di indagini e di sacrificio per inquirenti e magistrati che dai primi anni di questo secolo hanno rimesso mano alla lotta alla criminalità organizzata smembrando clan fino ad allora potentissimi.
La salute dei detenuti ed il carcere sono elementi di conflitto sin dalle origini delle norme che, manipolate, hanno creato un intollerabile approfittamento. Cutolo si finse pazzo e, trasferito al manicomio criminale (così all’epoca si chiamava) ne uscì con le bombe lanciate dai suoi affiliati. Setola, killer del clan dei casalesi, si finse cieco per anni ed uscì dal carcere spargendo sangue e stragi, tra cui quella di Villa Literno in cui ammazzò a casaccio degli immigrati perché “neri”, un testimone di giustizia e chiunque si opponesse alle richieste di pizzo. L’ipovedente fasullo ha ammesso 46 omicidi, ma prima di avviare ogni forma di collaborazione ha chiesto denari, impunità e prebende, giustamente negate dagli inquirenti, il tutto mentre dal carcere si è sempre professato un povero cieco.
Questo uso strumentale della salute è ben noto agli inquirenti che, all’inizio della crisi del Covid, hanno pubblicamente, sin dalla metà di marzo, invitato il ministro della Giustizia ed il Dap (il dipartimento che amministra di detenuti) alla cautela e ad agire come nel caso Riina, ovvero disponendo in anticipo un piano di ricollocamento dei personaggi più in vista nel panorama criminale.
Lo ha fatto Catello Maresca, che in galera ha mandato Setola, Zagaria e tanti casalesi, lo ha fatto pubblicamente subito dopo Cafiero de Raho, il procuratore nazionale antimafia e lo hanno fatto più di recente tanti magistrati della prima linea. Ora anche Di Matteo, magistrato che a Palermo ha avviato la controversa indagine sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia.
Quest’ultima voce è arrivata a dichiarare che, a suo giudizio, pur avendo dato la disponibilità, non avrebbe avuto il posto di capo del Dap dal ministro Bonafede per una concomitante voce dalle carceri che segnalava, secondo le intercettazioni operate, la durezza eccessiva del magistrato a cui avrebbero fatto seguito minacce di rivolte. Bonafede ha negato ogni relazione tra i fatti ed ha presentano all’opinione pubblica il suo assoluto disappunto nei confronti di chi era stato candidato dal suo stesso partito, i 5 Stelle, a presidente della Repubblica.
Ma i fatti dicono che, a prescindere da ogni rapporto di causa effetto, il Covid ha effettivamente svuotato le carceri ed ha consentito a tantissimi condannati per reati di mafia di tornare nelle proprie case. Non derelitti spacciatori immigrati o criminali da accatto, che affollano senza voce le carceri, ma pezzi da novanta, in grado di sollecitare le decisioni con perizie, istanze e pareri medici in modo da indurre il sistema, che non trova risposta al dilemma, a reagire con la resa e concedere il ritorno a casa della casta dei criminali.
Ora, questo fenomeno è di una gravità inaudita. Il rientro al domicilio di boss e criminali di spessore non è un evento neutro. È una sconfitta senza appello dello Stato. Lo è nel Mezzogiorno che cerca riscatto soprattutto, che con i propri occhi assiste alla mortificazione della vita eroicamente spesa da pochi a combattere la mafia tra l’indifferenza di tanti; e lo è per il popolo del Mezzogiorno che ben conosce quanto il mero restare a casa di un boss, invece che in carcere, influenza la vita di strade e quartieri. Non serve che delinquano, è sufficiente che dimostrino di essere capaci di uscire per dare un avvertimento ed intimorire tanti e ringalluzzire affiliati sopiti.
Il disastro che l’inazione del Dap ha prodotto, come testimoniato dall’ordinanza del Tribunale di Sassari, ed il goffo tentativo di approvare un decreto riparatorio che riporti in carcere chi è uscito, provvedimento che si annuncia del tutto incompatibile con l’ordinamento, rimettono al centro l’analisi sulle capacità di questo governo. E soprattutto dimostrano che la chicchierologia giustizialista, condita da ego smisurati, messa alla prova dei fatti non è in grado di produrre risultati concreti.
La giustizia è un servizio che va garantito con equilibrio e competenza, con umiltà, ascoltando le competenze per tempo e mettendosi al servizio dei principi che offrono da soli soluzioni eque senza ricorrere a miriadi di norme sopravvenute per arginare i disastri di una cattiva amministrazione. Del resto a questi principi ed ideali hanno dato la propria vita in tanti e dietro la cattura di criminali ci sono vite perse o spese per ideali nobili. Vanificare tutto per non aver avuto la capacità di reagire è un male che produrrà di sicuro effetti.
Quando si maneggia senza attenzione il tema giustizia qualcosa accade. Come con il cosiddetto Decreto Biondi nel primo governo Berlusconi, come per l’indulto di Mastella nel secondo Prodi, come le indagini su Renzi. Per quel che è accaduto il Mezzogiorno pagherà un prezzo altissimo. Speriamo non sia il solo ad essere sacrificato.