La cosiddetta fase 2, il tentativo di venire fuori dalla paralisi sociale da coronavirus, dovrebbe prendersi molta più cura della scuola. Invece no. A parte imbarazzanti sciocchezze tipo la proposta di slargare i portoni di ingresso degli edifici per agevolare il distanziamento sociale, che farebbe inorridire non dico Renzo Piano, ma qualunque vecchio capomastro muratore calabrese di quelli che han tirato su le case Fanfani. A parte anche il problema di dove far parcheggiare i figli ai genitori che tornano a lavorare, che pure è un grave problema. Ma che non c’entra granché con una strategia lungimirante di crescita del capitale umano di un Paese.
Da anni la scuola italiana vive in una bolla. Una comfort zone, come si usa dire. Comfort zone dei poveri, intendiamoci. Dove c’è uno straccio di minimo sindacale garantito per tutti (quelli che non sono rimasti precari), niente merito, niente valutazione, niente carriera. Niente licenziamenti, niente frustrazioni da mancata promozione. Uno vale uno. Non l’hanno inventato i pentastellati. È la logica catto-comunista del nostro sistema educativo.
Andiamo per aneddotica, che ci si capisce più facilmente. Una qualunque scuola media, secondaria di primo grado è la dizione corretta. Dotazioni e competenze informatiche solitamente coincidenti con il registro di classe on line e quello che uno, putacaso un prof, ha imparato da sé smanettando di WhatsApp e YouTube.
La terza di febbraio è zona rossa. La nostra scuola chiude per una settimana. Attesa. Chiusura prorogata, più e più volte. Gli insegnanti si autoattivano a marzo. Concordano di utilizzare una piattaforma per la didattica a distanza. Una settimana dopo il ministero ingiunge confusamente di fare più o mano quello che si sta già facendo: non limitarsi a dare i compiti via registro di classe, ma “dare spiegazioni”. Ognuno fa di sua iniziativa e responsabilità. Circolari tante, indicazioni vere zero virgola.
Dal 4 maggio si va a regime: al massimo tre ore di didattica on line per alunno. Con quali mezzi (o “device”), quante ore di insegnamento, quali livelli di didattica perseguire: nessuna indicazione. Sì, ho capito, il burocrate troverà per autodifesa sempre una qualche circolare-grida manzoniana. Non è questo che occorre.
So di un precario che si è sparato dieci ore al giorno per preparare videolezioni registrate e montate, postate su Youtube, per essere accessibili in orari flessibili a seconda delle esigenze delle famiglie, per significare una presenza fisica. In più, le dirette di colloquio con i ragazzi. Sulla materia, o anche per gli auguri di pasqua o dirsi come va. Ragazzi di cui il digital divide segna le vere discriminazioni. E dagli pure l’iPad al povero, che tanto finisce i pochi miseri giga che può comprare in due giorni. I ragazzi hanno il telefonino, smanettano di Tik Tok e Instagram, ma non sanno niente di un pacchetto office o di come si manda una mail con allegati. Non è che si fa cultura con 140 battute. Il nostro precario A ha lo stipendio fino al 30 giugno. Dopo chissà.
Invece il precario B sarà pagato fino al 30 agosto. Anche lui ha subìto la botta della pandemia. Come segue: lascia la Lombardia nottetempo su un treno: è la fuga al Sud dei primissimi di marzo. Tra i suoi compiti, tradurre le verifiche da domande aperte a domande chiuse, adeguandole ai limiti intellettivi dei suoi alunni. Manda ai ragazzi un paio di WhatsApp in due mesi, scopiazzando da Wikipedia e sbagliando di suo i congiuntivi. Si lamenta pure: “Non abbiamo i mezzi. Lo Stato che fa?”.
Il precario A non ci guadagna niente, perché non c’è meritocrazia. Il precario B non rischia niente, perché, coerentemente, non c’è controllo di lavoro, qualità e risultati.
Poche finali osservazioni.
1) Il problema non sono il Buono e il Cattivo. È che il sistema è costruito sui diritti del precario B, il Cattivo garantito. È ora di pensare a cambiarlo, questo sistema. Imparando da quello che accade di buono.
2) Il dibattito sulla fase 2 viaggia tra salute ed economia. La scuola non è considerata strategica. Malissimo. Inutile pietire quattro soldi. Da un ministro ci si aspetterebbe una battaglia culturale. Da un ministro.
3) Il modello di governo della salute applicato dal Governo è l’iper-produzione di regole. È lo stesso modello fallimentare della scuola: la responsabilità, l’iniziativa, la libertà di giocarsi sono lodevoli nell’omelia, non significative nel metodo di governo. Che a nessuno venga in mente di applicarlo alla scuola.
4) La storia del Buono e del Cattivo, che non è un episodio ma il selfie del sistema, dovrebbe farci aprire una riflessione su come attrezzare una moderna scuola libera, cioè normata in funzione del supportare la creatività e limitare i parassitismi.
Ciò darebbe un filo di speranza per il destino dei nipotini di quelli della mia generazione.