In silenzio. Tre metri uno dall’altro. Aspettando il proprio turno per ricevere il sussidio di disoccupazione davanti all’ufficio del lavoro. Sulla bocca, la mascherina. Sulla testa, un berretto o un cappuccio. Come se cercassero di nascondersi, come se essere stato licenziato fosse una vergogna. Come se fossero colpevoli e non vittime. Sono i nuovi disoccupati. Il pacchetto di stimoli da due miliardi di dollari approvato da Trump alla fine di marzo non ha impedito che nel mese di aprile si siano persi più di 20 milioni di posti di lavoro e che il tasso di disoccupazione sia aumentato del 4,4% raggiungendo il 14,7%.



Sotto i cappucci e dietro le mascherine, è molto probabile che i nuovi disoccupati non stiano leggendo i suggerimenti dei grandi giornali per “cercare un antidoto all’incertezza” attraverso la routine o canalizzando la sensazione di instabilità in una maggiore energia creativa. Non gli servirebbero molto. Siamo certi che tutti i tentativi “per imparare che facevamo male prima che arrivasse il Covid” abbiano le migliori intenzioni, ma ciò non significa che siano tutti utili. Soprattutto quando si è in coda tra i disoccupati e affiora un sentimento di colpa.



Negli Stati Uniti (330 milioni di abitanti) ci sono 20 milioni di nuovi disoccupati, in Spagna (47 milioni di abitanti) un milione di nuovi disoccupati dall’inizio della pandemia, ai quali si aggiungono 3,3 milioni di Ertes, lavoratori pagati dalla Sicurezza sociale, tecnicamente disoccupati. Si tratta di imparare. Lo ha fatto rapidamente la Bce quando ha deciso di correggere la sua timida risposta di marzo. Si vede che ha imparato, perché ha replicato alla sentenza della Corte Costituzionale tedesca contro i programmi di acquisto del debito. Sta imparando, anche se con troppa lentezza, l’Unione europea: il Mes senza condizioni per i Paesi del Sud e il programma per la ripresa che può raggiungere 1,5 bilioni di euro secondo il preventivo.



Tuttavia, l’Ue deve fare presto. Le code di disoccupati negli Stati Uniti assomigliano a quelle del ’29 e per questo è urgente qualcosa di simile al New Deal. È necessario discutere la destinazione degli investimenti: non ci sono stati troppi interventi pubblici nelle infrastrutture tradizionali? Non si dovrebbe pensare all’edilizia sociale, all’innovazione energetica? Forse neanche questo significa aver imparato. Favorire gli investimenti nei settori del futuro, migliorare l’istruzione, rinnovare il tessuto produttivo sono cambiamenti necessari, ma non sufficienti.

Qualche giorno fa, Alfredo Pastor, già economista alla Banca Mondiale e membro dei governi socialisti spagnoli degli anni ’90, in un encomiabile tentativo di definire ciò che dobbiamo imparare segnalava che “è necessario uscire dalla prigione mentale” in cui siamo. E aggiungeva: “Nessun pacchetto di provvedimenti cambierà da solo la nostra visione del mondo, che è ciò che deve cambiare”. È significativo e ammirevole che Pastor, appartenente a una tradizione tecnocratica, sottolinei che l’essenziale non sono i programmi, ma il loro spirito. I programmi devono ispirarsi a quanto abbiamo appreso dalla pandemia: donazioni di imprese e persone, volontariato, solidarietà come fonte di felicità. Pastor centra la questione, vuole trasformare in metodo ciò che ci è successo. Ma quando formula ciò che abbiamo imparato lo concretizza in “tre innovazioni morali”: “il rispetto della dignità del lavoro” (migliorerà l’occupazione), “la soddisfazione del lavoro ben fatto” (con aumento di produttività) e “l’allegria del dono” (faciliterà il finanziamento).

Non è giusto ridurre l’apporto di Pastor e considerarlo come un “capitalismo dei valori”. Però si dovrà discutere se l’apprendimento è puramente etico, se ha a che fare con ciò che dovremmo essere o con quello che siamo. È facile predire, come scriveva qualche giorno fa Houellebecq, che se avremo appreso solo “innovazioni morali” il mondo dopo la pandemia sarà uguale, solamente un poco peggiore.

L’espressione “dignità del lavoro”, per esempio, non è un punto di arrivo, ma di partenza per trasformare la crisi in opportunità. È senza dubbio un criterio per valorizzare obiettivi che finora erano invisibili, per modulare il reddito minimo vitale in funzione delle situazioni, per rafforzare un welfare state o una welfare society che non soffochi la responsabilità personale. Tuttavia, senza tentare di capire le conseguenze per il mondo del lavoro che in queste settimane ci ha fatto riscoprire (inter)dipendenti, l’apprendimento corre il rischio di rimanere marginale. Una specie di accessorio che non provoca il cambiamento di mentalità chiesto da Pastor. La stessa cosa succede con il valore del dono, della gratuità, che ci ha accompagnato da quando è iniziata la pandemia. Non basta sottolineare “l’allegria del dare” se non riconsideriamo l’antropologia dell’interesse che utilizziamo quando pensiamo al mercato o l’antropologia negativa che ispira la nostra concezione dello Stato.

I nuovi disoccupati che fanno la fila nelle nostre città, nascosti tra mascherine e cappucci, hanno bisogno di più che un New Deal, di più che una correzione (necessaria) di valori. Hanno bisogno, abbiamo bisogno tutti, di un apprendimento che non sia fallace, ma che cambi il modo di ricevere un sussidio, di fare impresa, di lavorare, di costruire uno Stato migliore, una società con più protagonismo.