“Lavorare ognuno, lavorare meglio” è il titolo di un editoriale comparso sul Sussidiario poco più di un anno fa. Vi si criticava Pasquale Tridico, da poco designato presidente dell’Inps dal Governo Conte-1, in cui il leader M5s Luigi Di Maio era vicepremier allo Sviluppo e al Welfare.
L’economista romano si era conquistato la nomina sforzandosi di dare parvenze di dignità scientifica e politico-economica al Reddito di cittadinanza appena introdotto per adempiere alle promesse elettorali di M5S. Il Rdc segnalava di per sé una netta fase regressiva, con il ritorno a una politica del lavoro programmaticamente mescolata all’assistenzialismo sociale, tipica di altre stagioni della storia italiana recente. Subito a valle di questa svolta e pochi mesi dopo il varo del discusso “decreto dignità” firmato da Di Maio, nell’aprile 2019 Tridico profilava “una fase 2” all’insegna del “lavorare meno, lavorare tutti”: a conferma della volontà politica di smantellare un lungo percorso riformista culminato nel Jobs Act, riesumando in chiave di cosiddetta “decrescita felice” un mantra politico-sindacale di mezzo secolo fa.
Mentre l’Inps di Tridico è diventato nel frattempo esemplare deI fallimento a priori di ogni strategia di rilancio imperniata sullo statalismo burocratico, il ministro del Lavoro del Conte-2, Nunzia Catalfo (M5S), ha rilanciato tale quale lo slogan di Pci e Cgil degli anni ’70. “Lavorare meno lavorare tutti” – confidando nella praticabilità di una redistribuzione aritmetica del monte-lavoro nell’Italia nel 2020 – è dunque la ricetta elementare del partito di maggioranza relativa quando l’Azienda-Paese affronta le paurose sfide della Fase 2 post-pandemia: quando milioni di posti di lavoro se ne sono andati in poche settimane con decine di miliardi di Pil.
Ci ha già pensato la Confindustria del neo-presidente Carlo Bonomi a negare ogni minima credibilità alla proposta Catalfo: le centinaia di migliaia di imprese che lottano per sopravvivere – anzitutto sui mercati internazionali – non hanno il minimo spazio nelle proprie organizzazioni e nei propri bilanci per sopportare l’inserimento di nuovi occupati “per forza” a fianco di vecchi occupati chiamati a lavorare meno, anche se – par di capire – a parità di retribuzione. Mentre – par sempre di capire – lo Stato contribuirebbe alla formazione di nuovi assunti: ma in un quadro di forte ripubblicizzazione della politica industriale e del lavoro, caratterizzato dall’ingresso dello Stato nella proprietà e nella governance delle aziende (a debito verso l’Ue) e dall’attribuzione alle organizzazioni sindacali di poteri di “co-gestione”.
“Lavorare meno, lavorare tutti” mantiene quindi intatta tutta la sua carica ideologica: quella che – per restare solo agli aspetti economici degli anni ’70 – condusse l’Italia della “scala mobile” a un’inflazione annua vicina al 20%. Oggi l’inflazione non è – per ora – una preoccupazione in Europa: l’emergenza è la ripresa, priorità drammaticamente enfatizzata dalla pandemia. L’emergenza nell’emergenza – per l’Italia – è il ritrovarsi una stagnazione quasi decennale, caratterizzata da una crescita virtualmente nulla della produttività del lavoro: cioè l’efficienza della manifattura nazionale, vero motore dell’economia.
È qui, scriveva il Sussidiario già un anno fa, che il Governo del Paese – qualsiasi Governo – dovrebbe investire con strumenti prioritari e selettivi: in una politica organica di sviluppo che punti sull’impresa come unico luogo vero di generazione di occupazione reale perché qualificata. Una politica che guardi definitivamente al lavoro autonomo – all’auto-impenditorialità – come momento principale: un giovane diplomato o laureato assunto e formato da un’impresa è di per sé un imprenditore potenziale, pronto a essere in futuro soggetto attivo di nuova occupazione. Sono strategiche, in parallelo, la competitività del sistema educativo e del sistema imprenditoriale.
Un Governo, nel ventunesimo secolo, ha tutti gli strumenti per sostenere – anche in una fase difficilissima – i lavoratori dipendenti assieme ai loro imprenditori e ai lavoratori autonomi che cooperano alla competitività dell’Azienda-Paese. Se invece lo Stato vuol tornare a sostituirsi all’economia di mercato – nel rigurgito di ideologie anti-imprenditoriali – produrrà solo sussidi, cioè carta senza valore: come quella che affondò la Germania di Weimar, spianando la strada alla dittatura nazista.