Molti hanno paragonato questo tempo strano in cui ci siamo trovati precipitati a causa del coronavirus al secondo dopoguerra, quando il nostro paese appena uscito dal conflitto appariva in condizioni disperate, con industrie semidistrutte, disoccupazione alle stelle e tanta fame. Seppe poi riprendersi alla grande, fino a diventare negli anni successivi una delle economie più avanzate al mondo.
In un’analisi pubblicata nel 1983, l’economista americano John Kenneth Galbraith, già consulente di Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy, attribuiva tale successo alla bellezza. Queste le sue parole: “Nessuno può citare la superiorità della scienza e dell’ingegneria italiana, né la qualità del management industriale, né tantomeno l’efficacia della gestione amministrativa e politica, né infine la disciplina e la collaboratività dei sindacati e delle organizzazioni industriali. La ragione vera è che l’Italia ha incorporato nei suoi prodotti una componente essenziale di cultura e che città come Milano, Parma, Firenze, Siena, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, pur avendo infrastrutture molto carenti, possono vantare nei loro standard di vita una maggiore quantità di bellezza. Molto più del Pil, nel futuro il livello estetico diventerà decisivo per indicare il progresso della società”.
Condivido le osservazioni di Galbraith, del resto l’Italia non ha mai smesso di scommettere sul fattore bellezza. Basti pensare alla moda e al turismo, ma anche al manifatturiero: la Ferrari ne rappresenta un emblema.
Vorrei però aggiungere un particolare non di secondaria importanza: la bellezza ha trovato nella nostra società un terreno fertile. Attraverso i tanti corpi intermedi, di varia natura e di diverse ispirazioni ideali che tuttora non mancano, è stata capace di dar forma al nostro modo di vivere e di lavorare. Per esempio il bellissimo nuovo ponte di Genova, ideato da Renzo Piano, è il risultato anche del lavoro delle tante maestranze invisibili di cui il paese è, per nostra fortuna, ancora ricco.
Così, idealmente, oggi dovremmo costruirne uno che vada dalle Alpi fino alla punta estrema dell’isola di Lampedusa. E tutti, in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo, dovrebbero essere messi in grado di dare il proprio contributo di risorse e di creatività. L’auspicio è che il debito aggiuntivo che stiamo generando, in parte necessario, venga indirizzato anche a sostenere una nuova ripartenza di tutti quei progetti e soggetti che sono in grado di generare ricchezza e occupazione. Penso in primis alle infrastrutture e al consolidamento o a una maggiore patrimonializzazione delle nostre imprese. Ovviamente all’interno di una gestione responsabile delle politiche di bilancio. Non possiamo permetterci di avere un debito di tali proporzioni senza crescita.
È un dovere morale di tutti evitare che le future generazioni si ritrovino cariche di debiti e senza un lavoro. Soprattutto serve un modo diverso di pensare e guardare le cose, capace di tener sempre conto della totalità e non solo dei particolari. Per questo non si può più trascurare uno sviluppo che non contempli il tema della natalità e della qualità della vita dei nostri anziani. Così come non è rimandabile un vero rinnovamento del nostro sistema scolastico.
E sarebbe cosa buona e lungimirante riprendere in seria considerazione l’Europa immaginata dai padri fondatori. Edgard Morin, filosofo e sociologo francese, è stato fra i primi a denunciare che “la scienza ci ha abituati a ragionare in maniera compartimentata, meccanicistica, disgiuntiva. E noi, a furia di pensare con un’intelligenza parcellizzante, siamo diventati incapaci cioè di afferrare i problemi che, al contrario, sono sfaccettati, multidimensionali. Più progredisce la crisi, insomma, più progredisce la nostra incapacità di ‘pensarla’. Con il risultato che più i problemi diventano planetari più non riusciamo ad afferrarli e quindi a risolverli”. Oggi è il momento favorevole per uscire da questo vicolo cieco.