Ritornare a casa è una sensazione strana dopo aver vissuto le quattro mura per settimane e mesi come una luogo di confino; ci siamo accorti che molte delle cose inutili che stazionavano in attesa di utilizzo erano i realtà oggetti molto efficienti. I fuochi della cucina, l’ago, i tegami ed i libri hanno riottenuto attenzione. Non potendo affidarci a cucine esterne e servizi di sartoria e lavanderia, molto delle cose che abbiamo imparato a non fare più sono riemerse dalla memoria e ci hanno aiutato a vivere il lockdown riappropriandoci di qualche sapere sopito sotto le ceneri del passato. Non sapevamo più fare qualcosa ed abbiamo dovuto imparare di nuovo. Aver delegato all’esterno delle nostre case pezzi di lavoro è quel che è accaduto anche, negli ultimi venti anni, nel nostro Paese.



Pezzi interi di filiere produttive sono migrate all’estero e si sono allocate in territori dove fare quella determinata attività era più semplice, meno costoso e più conveniente in generale. Abbiamo contribuito alla crescita dell’economia globale e pian piano abbiamo lasciato saperi e competenze alle spalle, sostituendoli con il controvalore economico ridotto che ci costava, convinti che pagandolo poco avremmo aumentato i margini per le imprese e creato maggior valore. Tutto vero, in parte. La pandemia ci ha fatto scoprire che non sappiamo fare mascherine e respiratori per le terapie intensive e che se si blocca un container con prodotti di prima necessità siamo senza protezione. I reagenti per i tamponi non ci sono perché chi li produce ha sede all’estero e ben fa a non darne fuori dovendo prima occuparsi dei propri concittadini. 



E così molti pezzi del nostro sistema produttivo si sono ormai persi. Non ha molto senso lamentarsi oggi, in fondo il fenomeno lo conosciamo e le dinamiche del mercato globale hanno imposto, a chi vuole competere, di globalizzare la produzione per abbatte i costi e restare sul mercato. 

Sennonché noi siamo il Paese che ha imposto, nella sua piccolezza, uno stile di vita, un gusto, uno standard estetico, una capacità di innovazione unici e che ha che nella sua tipicità un che di magico e che ci consente di usare il Made in Italy come garanzia di successo. 

Ora che la crisi ha mostrato la debolezza e la fragilità delle catene produttive globalizzate può essere l’occasione per far rientrare, almeno in  parte, quelle produzioni e provare a dare nuovo slancio e lavoro ai tanti che oggi sono in cassa integrazione. 



Il termine da School of Economics è reshoring, in contrapposizione all’offshore, e indica il rimpatrio di qualcosa che era andato via. Pezzi interi di Made in Italy, pezzi di filiere tecnologiche si sono allocati in Paesi che hanno un trattamento del lavoro e delle imposte bassissimo con il fine di abbattere i costi. Ma il vero prezzo pagato è che, perdendo la capacità di produrre beni necessari ed allocando all’estero intere filiere, si perde anche il governo dei processi produttivi e distributivi. Ma come si può agevolare questo processo? È evidente che nessun regolatore o legge o può imporre alle imprese di non produrre all’estero ed è anche evidente che nessun progetto può avere un percorso che non porti benefici a tutti gli attori.

Quello che si può e si deve fare è utilizzare gli spazi che questa crisi ha aperto. Nell’ultima settimana molti commentatori hanno notato che l’Unione Europea sarebbe pronta a trattare degli sconti fiscali per il Mezzogiorno per agevolare la ripresa, da più parti si è ricordato il lavoro fatto nelle Regioni del Sud con le Zes (zone economiche speciali). Un mix che potrebbe soddisfare quello che le imprese chiedono. Norme semplici, da attuare attraverso un commissariamento  delle Zes, ed una serie di incentivi fiscali da offrire alle imprese che scelgano il meridione per reintrodurre filiere produttive spostate negli anni in altri paesi. 

In questo modo la parte più produttiva del Paese avrebbe un beneficio enorme nel ritrovarsi in casa aziende, fabbriche e produzione che oggi sono lontane e che hanno subìto, a causa della crisi Covid, un blocco che si farà fatica a superare. A ciò si possono aggiungere aiuti fiscali alle imprese che già operano sul territorio e la semplificazione delle procedure amministrative, già promesse dal Governo.

Tutto questo può funzionare ed ha già funzionato altrove. Ha funzionato a Tangeri, ha funzionato in Polonia, primo paese dell’Unione Europea a sfruttare le Zes, e funziona nella costruzione dei business plan delle aziende, alle quali si può offrire un inedito set di interventi di natura amministrativa, come le semplificazioni, e fiscale con interventi sia sul costo del lavoro che sugli utili reinvestiti.

Il tema è più attuale che mai. Abbiamo ormai compreso che nella tempesta della pandemia ci siamo dovuti da soli attrezzare per evitare danni maggiori ed abbiamo dovuto fare sacrifici personali enormi. E ora da soli, come Paese, abbiamo il diritto-dovere di presentare un Piano di Reinsediamento produttivo nel Mezzogiorno mettendo assieme le varie occasioni che oggi l’Europa ci lascia sfruttare, avendo fatto cadere i veti sugli aiuti alle imprese e consentendoci una politica espansiva della spesa.

In fondo, a pensarci bene, non dobbiamo far altro che riappropriarci dei nostri saperi e delle nostre produzioni e mettere le aziende più innovative in condizione di insediarsi nel Mezzogiorno in modo semplice ed efficiente. Se ci riusciremo, alla fine, non avremo solo imparato di nuovo a fare il pane grazie al Covid, ma avremo imparato, per prima volta come Paese, a fare i nostri interessi ed a sfruttare le nostre capacità.