Mano a mano che la pandemia si trasforma in emergenza economica, sono più numerosi coloro che vedono nel virus “esportato” da Wuhan una forma di “competizione” anomala ed estrema portata dalla Cina al resto del globo. Probabilmente neppure un’investigazione internazionale – se e quando potrà essere condotta – potrà separare l’accertamento dei fatti all’origine della pandemia dalle fantasie complottistiche, che non si spegneranno facilmente. L’argomento sembra tuttavia destinato a restare al tavolo della geopolitica: di una ipotetica “conferenza internazionale post-pandemia” che molti sviluppi parrebbero consigliare e che tuttavia nell’immediato sembra molto difficile anche solo da proporre. Gli osservatori concordano anzi nel considerare il Covid il catalizzatore finale di una “nuova guerra fredda” fra Cina e Usa, iniziata già prima della pandemia su un terreno essenzialmente economico: fra concorrenza commerciale e “confrontation” tecnologica e militare.
Dopo un evento “disruptivo” come la Seconda Guerra Mondiale, il mondo restò in effetti in clima bellico per un altro trentennio: certamente fino a quando il presidente americano Nixon volò a Pechino, forzandone l’uscita dall’isolamento ben prima del crollo del comunismo in Europa. Dopo la morte di Mao la Cina ha iniziato una nuova “lunga marcia” che l’ha portata a essere quarant’anni dopo il motore generatore del primo Pil mondiale. Ad essere un mercato di sbocco sempre più rilevante per America e Ue e quindi luogo sempre più interessante ove localizzare segmenti crescenti di manifattura e di investimenti. La Cina, infine, è divenuta concorrente: spesso il primo in molti settori, non solo nelle produzioni di base. Di più: è diventata un “super-global player” capace di impostare una strategia “Belt and Road” che abbraccerebbe l’Eurasia con l’Africa, premendone da subito tutto il peso potenziale su Giappone e Australia e circondando il continente americano da due oceani.
Un “competitor” ostico, la Cina, anzitutto perché anomalo: perfetto conoscitore dei manuali più aggiornati dell’economia globale di mercato; ma allo stesso tempo radicalmente diverso nei suoi assetti socio-politici rispetto all’Occidente in cui l’economia di mercato è divenuta una vera e propria civiltà. A Pechino è invece cresciuto un capitalismo misto gestito in via autoritaria da un partito-Stato di recente continuità leninista, intrecciato con un’oligarchia finanziaria di millenaria continuità imperiale.
E’ un sistema capace oggi di proporre/imporre la tecnologia 5G all’Europa nonostante la rete digitale in Cina sia notoriamente uno strumento di restrizione delle libertà individuali, non di loro promozione. E’ stato il Dragone a offrire “soccorso” alla Grecia, quando la stessa Ue pretendeva da Atene rigore finanziario, ma lo ha fatto pretendendo la vendita dei porti-gioiello. E’ ancora Pechino ad aver reso nuovamente l’Africa un continente-colonia. Ne ha certamente risollevato – qualche volta in modo sensibile – redditi pro-capite vicini allo zero, ma con approccio predatorio su terra e risorse naturali. Ha trasformato capitali-bidonville in copie di Shanghai: ma rendendole così sue città vassalle, esportandovi il proprio modello tecnocratico-feudale, non la liberaldemocrazia che l’anti-colonialismo africano ha del resto sempre combattuto come strumento di oppressione europea.
I casi di studio della Cina “concorrente paradossale” sono quasi infiniti. Quanti in Italia, in queste settimane, si sono procurati in Cina – attraverso i canali dell’e-commerce – le mascherine o i respiratori introvabili in un Paese del G7 colto di sorpresa dal virus “importato” da Wuhan? E’ stato questo, fra l’altro, ad autorizzare alcuni “media” cinesi a diffondere un video controverso, in cui da alcuni terrazzi italiani si inneggiava alla Cina. La competizione cinese non è mai priva di una componente apparente di “cooperazione”, ma questa risulta sempre in parte imposta da uno stile competitivo in cui la Cina fa sempre valere la sua posizione di forza. E’ questo approccio ad averla spinta a proporsi all’Europa come forniture di attrezzature anti-pandemia prodotte in catene delocalizzate dall’Europa in Cina, appena dopo aver negato all’Europa tempo prezioso per prevenire gli effetti catastrofici della pandemia.
In Italia come in altri Paesi Ue, intanto, il governo ha varato in corsa misure per evitare scalate ostili a imprese nazionali messe in ginocchio dalla pandemia. Ma nel dibattito pubblico italiano sul finanziamento della Ricostruzione, dietro scetticismi e critiche sul ricorso al Mes o agli altri strumenti in via di predisposizione in sede Ue, è spuntata da tempo l’ipotesi che Roma “faccia da sola”: collocando BTp a Pechino.
Il paradosso forse più esemplare della “strana competizione “ cinese riguarda l’Accordo di Parigi sul clima: considerato universalmente una pietra miliare di una globalizzazione impegnata a coniugare sviluppo e sostenibilità. L’esito più concreto è recentissimo. Lo scorso novembre – quando a Wuhan la crisi-Covid era verosimilmente già scoppiata – gli Usa hanno annunciato la loro polemica uscita dal Cop-21: che, com’è noto, prevede un articolato percorso di autodisciplina ambientale sul fronte industriale. Un pacchetto di impegni che l’America First di Donald Trump fatica a tollerare e che d’altronde la Cina continua nei fatti a non rispettare. Eppure pochi giorni dopo la “disdetta” di Washington, è stata proprio Pechino – assieme a Parigi, “patria” dell’Accordo – ad annunciare una dichiarazione solenne di irreversibilità dei patti globali sul clima. La “lealtà” cinese alla geopolitica del ventunesimo secolo è questa. Ed è una constatazione, non un giudizio.
Che fare con la Cina? Per ora non c’è molto più della semplice domanda. Ma è probabilmente la prima e principale domanda con cui dovrà misurarsi un mondo che si ritrova a fine “lockdown” come dicono di sentirsi molti guariti dal Covid: come se un treno fosse passato loro sopra. Il treno cinese?