Impossibile dimenticarlo e al tempo stesso terribile e intimamente drammatico ricordarlo nel quarantesimo anniversario della sua morte. Walter Tobagi, ucciso per strada il 28 maggio 1980 dalla Brigata XXVIII marzo, cioè da un gruppo di giovani che voleva entrare a pieno titolo nelle Brigate rosse, era stato l’artefice di una delle più grandi rivoluzioni nel mondo giornalistico, di quella che in Italia è sempre stata una corporazione, con un ordine e un sindacato che hanno sempre avuto un peso rilevante nella vita dei giornali e dell’informazione in generale.

Occorre ritornare al contesto politico di quegli anni per comprendere bene la rottura che Tobagi provocò in quella sorta di palude stagnante. E come quella rivoluzione fu stroncata da un assassinio che alla fine diventò utilissimo a chi si opponeva a ogni rinnovamento nella cultura e nel sindacato dei giornalisti.

Nel 1977, di fatto e non ancora di nomina, Tobagi era il migliore inviato speciale del Corriere della Sera, quello più attento all’analisi politica e alla realtà convulsa di quegli anni.

Nel 1975 e nel 1976 c’era stata un’avanzata elettorale decisiva del Partito comunista e nello stesso periodo l’Italia era attraversata dalla terribile realtà del terrorismo nero, di marca fascista, ma anche da quello rosso delle Brigate rosse. È un periodo di confusione, di concitazione e di sconvolgimenti politici e sociali drammatici.

Si profila all’orizzonte quella che dovrebbe essere una soluzione di compromesso storico tra Pci e Dc, che sembra venire accettata da tutti, persino dalla cosiddetta “grande borghesia” italiana, quella che solo un uomo come Giorgio Amendola, comunista riformista che voleva un partito unico della sinistra, definiva “borghesia stracciona” per la sua avidità, per il suo mancato impegno civile e per il suo opportunismo.

Ad esempio, l’avvocato Gianni Agnelli confidava – con nonchalance e con il suo consueto elegante cinismo – alla giornalista americana Laily Weymouth che il futuro dell’Italia risiedeva “in una coalizione dei due maggiori partiti, che rappresentano i quattro quinti dell’elettorato”. Agnelli vedeva nel futuro una vera coalizione con ministri comunisti al governo. Pareva disinteressato, al di là dei suoi affari particolari, mentre parlava.

Proprio in quel periodo sembrava che fosse in atto un rivolgimento di alleanze internazionali. Il cancelliere socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt, al vertice degli alleati occidentali a Portorico, denunciava la nuova versione aggressiva dell’Urss nella guerra fredda con i missili SS-20 puntati sulle maggiori città dell’Europa occidentale.

Tra il 1976 e il 1977 c’era stato un breve e più che altro formale distanziamento del Pci dall’Urss, ma poi subito dopo, nel sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, c’era stato una ricomposizione a squilli di fanfara. Al punto che l’eurocomunismo evaporò nel giro di un anno, facendo spazio in Italia a una “questione morale” che deluse tutti e l’alleanza tra le due forze fu letteralmente congelata da Aldo Moro, prima della sua tragica fine, con un monocolore democristiano per un governo di unità nazionale, che doveva portare in un anno a nuove elezioni e che aveva scontentato soprattutto Enrico Berlinguer e gran parte del Pci.

Questo è il contesto complessivo che occorre conoscere (e che si continua a confondere e a dimenticare) per comprendere come il compromesso storico divenne evanescente, anche perché ci fu chi lo mise in discussione, creando alternative democratiche, opponendosi a un consociativismo catto-comunista come volevano diversi “poteri forti” e una schiera imprecisata di intellettuali opportunisti, magari redenti, e gauchisti.

Nel 1976 cominciò Bettino Craxi, diventato segretario del Psi, a scompaginate il giochetto del nuovo consociativismo, rilanciando il riformismo antico di Turati, della Kuliscioff, di Matteotti, ma anche di Bernstein e di socialisti come Proudhon. Il riformismo socialista ritrovato, e ritornato al suo ruolo fondamentale, spiazzò l’ideologia catto-comunista che sembrava l’ultima spiaggia per un legame con un comunismo sovietico già in profonda crisi.

Parallelamente, e in piena autonomia, Walter Tobagi ruppe l’egemonia culturale nel giornalismo italiano del catto-comunismo, predicato dai “giornali dei padroni”, dagli “editori impuri” che aveva lasciato in eredità il fascismo (fu Farinacci, su mandato di Mussolini, a liquidare Albertini al Corriere e Frassati alla Stampa, sostituendoli con imprenditori un tempo “fedeli”) e dall’influenza nel sindacato dei giornalisti della corrente di “Rinnovamento”, l’ammucchiata catto-comunista dell’epoca.

Mentre nella sinistra lunare si strologava letteralmente tra “oggettività e completezza dell’informazione” e si cercava di coniugare egemonia gramsciana e pluralismo, Tobagi operava con un gruppo di colleghi e amici una scissione da “Rinnovamento” fondando una nuova corrente, “Stampa democratica”.

Walter era stato iscritto giovanissimo al Psi a Cusano Milanino per un anno, forse, ma ammirava sempre Anna Kuliscioff e ripeteva spesso una frase della grande russa, quando definiva i massimalisti “giacobini da strapazzo”. Tobagi era un riformista e un cattolico che aveva a cuore una concezione dell’intellettuale e del giornalista portatore di una visione laica e tollerante, aperta e libera, rispettosa della diversità, sganciata da logiche di compromesso e da interessi lobbistici e di potere.

A “Stampa democratica” aderì solo una parte di giornalisti di area socialista, ma vi aderirono molti giornalisti di varie tendenze, che volevano essere solo liberi di scrivere quello che volevano, senza tutela. E la nuova corrente, sia per la notorietà giornalistica di Tobagi, sia per la sua tenace e tranquilla capacità sindacale ebbe un successo incredibile, che rimise in discussione i rapporti di potere nel comitato di redazione del Corriere, nell’Associazione lombarda dei giornalisti, di cui Walter divenne presidente, e negli equilibri di forza dello stesso sindacato nazionale, la Fnsi.

Furono anni stressanti per Tobagi, perché pur avendo rivoluzionato il sindacato, non smise mai di essere l’inviato di punta del Corriere della Sera, anche in materia di terrorismo. Ma anche se sommerso dal lavoro, era come se avesse coronato il sogno della sua vita: si era laureato con una tesi di quasi mille pagine sulla storia del sindacalismo in Italia, aveva cominciato giovanissimo a scrivere su un settimanale sportivo, Milaninter e poi da studente del Liceo Parini era diventato direttore del famoso La zanzara. Fece un po’ di praticantato all’Avanti!, ma non gli poterono offrire un contratto, e quindi arrivò all’esame di professionista scrivendo sull’Avvenire. Poi il salto al Corriere d’Informazione e quindi al Corriere della Sera.

Il sindacalista Tobagi riuscì, in piena autonomia, ad avere l’appoggio dei riformisti socialisti milanesi, da Nuccio Abbondanza a Ugo Finetti, da Paolo Pillitteri a Carlo Tognoli, e cercò mediazioni insieme a Claudio Martelli per non contrapporre in modo esasperato i giornalisti di area socialista di “Stampa democratica” a quelli di “Rinnovamento”.

Il giornalista Tobagi fu un esempio di lucidità, di capacità di scrittura e di coraggio. Walter chiamò subito le Brigate rosse “rosse”, non come alcuni famosi “impiegati di sinistra” che continuarono per anni a scrivere le “cosiddette Brigate rosse”, alludendo forse a imprecisati servizi segreti deviati o ad altre oscure e indimostrabili operazioni.

Tobagi arrivò persino a sfidare le Br, con un fondo che è rimasto famoso per il suo titolo: “Non sono samurai invincibili”.

Bisognerebbe comprendere perché quella sua passione giornalistica e sindacale gli aveva procurato tanti nemici. La mattina del 28 maggio, quando fu ucciso, il sindacato dei poligrafici del suo giornale impiegò diverse ore per raggiungere un comunicato unitario e nella bacheca interna del Corriere era appesa una pagina del mensile di “pettegolezzo giornalistico” che lo attaccava per l’ennesima volta.

Quando venerdì 30 maggio arrivò il comunicato di rivendicazione delle Br molti rimasero stupiti. Era un testo di lessico familiare marxista-leninista quasi raffinato, difficilmente ascrivibile a giovani aspiranti brigatisti. Si rivendicava l’assassinio di Tobagi per la sua intelligenza: “Nel Corriere, entratoci come uomo di Craxi, si è subito posto come caposcuola di questa tendenza ‘intelligente’ degli apparati della controguerriglia psicologica, e su questa capacità ha costruito la sua carriera”. C’è ancora oggi il mistero su chi abbia veramente scritto quel documento e con quale macchina sia stato dattilografato.

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che scoprì il gruppo dei giovani killer, sottolineò in una dichiarazione il carattere quasi “mafioso” di quel delitto e ne indicò lo scopo in questo modo: “Garantire all’eversione la soggezione di un’intera classe quale è quella dell’informazione”.

La mattina del 28 maggio, quando ci si trovò di fronte al cadavere di Walter Tobagi riverso sul selciato di via Saladini, ci si rese conto che l’Italia e il giornalismo italiano avevano perso la grande possibilità di fare un salto di qualità e di entrare finalmente nel mondo dell’informazione libera delle democrazie occidentali. Forse comprendendo lo scopo di questo omicidio per strada, con sette colpi di pistola “secchi e soffici”, il senatore Leo Valiani evocò il “delitto Matteotti” e Leonardo Sciascia, sottolineando la libertà con cui Walter scriveva, disse tristemente: “Lo hanno ammazzato perché aveva un metodo”.