Quando Giuseppe Di Vittorio è apparso la sera del primo maggio, di questo primo maggio, raccontandoci con la faccia di un giovane e già strepitoso Favino la parabola di un uomo nato bracciante e che ha concluso la sua esistenza con un riconoscimento pubblico ed un solco nella storia, molto più profondo di quello dell’aratro che da bambino era costretto a governare, in quel momento si è avvertita come l’assenza del lavoro di oggi deve portare a riflettere sulla grandezza della vera lotta per l’emancipazione dell’essere umano, quella per il lavoro.
In quel giorno Papa Francesco ha pronunciato parole chiare: “Anche oggi ci sono tanti schiavi – ha raccontato – tanti uomini e donne che non sono liberi dal lavorare e sono costretti a lavorare per sopravvivere. Ci sono i lavori forzati, ingiusti, malpagati che costringono a vivere con la dignità calpestata. Questo è calpestare la dignità umana”. Il non lavoro ed il lavoro sfruttato da eradicare sono la vera missione che una società, e la politica che la governa, sono chiamate a svolgere per uscire dalla crisi.
Lavorare con dignità e per la dignità dell’uomo è quanto serve per uscire dalle confuse acque della globalizzazione selvaggia che in questi tempi di crisi profonda non mostra alcuna soluzione credibile. Chi non riesce ad essere se stesso con il lavoro, per il liberismo selvaggio è condannato all’irrilevanza sociale e all’esclusione dal mondo produttivo. Per anni abbiamo di fatto accettato che questa dinamica si perpetuasse fondandoci sull’ipocrita visione che relegava ai margini una minoranza, seppur consistente, di derelitti e deboli del nostro sistema nazionale, soprattutto nel Mezzogiorno, e tantissimi al di fuori della ricca Europa.
Quelle vicende erano lontane e poco incidevano sulla vita più o meno dignitosa di tanti. La prevaricazione della vita dei lavoratori e la progressiva erosione della capacità di spesa dei salariati sono stati fenomeni che hanno avviato una marcia pericolosa verso un modello di sviluppo in cui il concetto di costo del lavoro ha sostituito la dignità del lavoratore.
Ora che la crisi apre le porte ad una massa enorme di disoccupati e cassaintegrati con scarse possibilità di recuperare a breve un reddito, appare a tutti chiaro che il conto della scelte iperliberiste bussa alla porta. Sta per avviarsi una fase che tutti gli analisti concordano con il ritenere caratterizzata dall’impossibilità, pure prospettica, di riportare a breve il Paese a livelli di occupazione ante crisi in tempi ragionevoli. A ciò si aggiungono i tantissimi esclusi dal lavoro regolare, scivolati nel comparto opaco del lavoro nero, ed i disoccupati storici ingabbiati spesso in territori del Mezzogiorno in cui la consegna a cottimo delle tazze calde di un bar era considerata una stabile occupazione.
Tutte queste donne e uomini hanno diritto a ricevere per le loro vite delle opportunità. Prima di tutto chiedendole a se stessi e dando alle proprie esistenze una svolta positiva. Ma serve anche che il Paese progetti dei percorsi per coinvolgere queste straordinarie risorse umane, questo esercito di inoccupati, in una potenziale risorsa. Avremo anni in cui dovremo sostenere con redditi più o meno di emergenza, di cittadinanza, di inserimento, con la Naspi ed altri strumenti qualche milione di cittadini. Tra questi in tanti hanno dei problemi di salute e dei limiti che impediranno un recupero all’attività lavorativa, ma la maggior parte di queste donne e uomini vorranno sicuramente trovare una strada libera e dignitosa per emanciparsi dall’assistenzialismo indotto dalla crisi. Ed il dovere di chi si trova a fare delle scelte è quello di proporre delle soluzioni per evitare che il lavoro irregolare e sottopagato si diffonda e ingoi in doline prive di dignità in tanti.
Come ci insegna la vicenda Whirlpool, il mercato non ha tutte le risposte, anzi spesso tradisce le sue stesse premesse e crea disoccupazione espellendo lavoratori premiati l’anno prima e licenziati qualche mese dopo. Una vera economia sociale che rifugga la logica del profitto come unico paradigma della gestione economica della società può essere una soluzione non temporanea ma strutturale per offrire una via alle energie lavorative di tanti.
Impiegare quei denari, che comunque dovremo trovare, per avviare un corso economico nuovo che utilizzi il lavoro delle persone in una missione sociale di ricostruzione di un mondo più dignitoso, più giusto più equo in cui le persone siano in grado di lavorare e offrire il loro contributo. Assunte attraverso i fondi dello Stato, o dallo Stato, per svolgere mansioni di recupero della vivibilità urbana, di cura delle persone, di tutela dell’ambiente e di supporto alle attività produttive senza che, necessariamente, quelle attività abbiano una profittevolezza intesa come markup tra il costo del lavoro e ricarico dell’impresa.
Il tutto attraverso un programma di formazione permanente rivolto a tutti quei soggetti che siano coinvolti nel percorso e che attraverso il loro impegno potranno acquisire competenze e capacità nuove da offrire al Paese. Un esercito per il lavoro, che dia forza e consistenza alla ripresa. Se siamo tutti, per necessità, capaci di adeguarci allo smart working, a costruire relazioni da remoto convertendo anche i più riottosi, ormai arresisi alla modernità, forse possiamo, con una visione nuova, anche abbandonare il totem della globalizzazione senza regole piegata alla logica del solo profitto, come unica via per creare ricchezza. E così facendo investiremmo le risorse, che comunque dovremo impegnare, per costruire un mondo più libero, dignitoso e giusto che sia lontano dallo sfruttamento e più vicino alla dignità ed alla libertà che il lavoro merita, quella dignità che emerge nelle parole di Di Vittorio e nel richiamo attuale e profondo di Papa Francesco.