Salvo colpi di scena, il Governo terrà fuori dal “decreto Maggio” l’ipotesi di ingresso diretto dello Stato di migliaia di imprese italiane, attraverso nuove articolazioni della Cassa depositi e prestiti. Ma è bastato che il progetto affiorasse sui media per innescare un confronto acceso ma tutt’altro che inutile per chiarire le opzioni politico-economiche di fondo della Fase 2.
“All’Italia serve un piano dello Stato per le imprese”: così il titolo di un editoriale -manifesto di Romano Prodi, domenica. Per l’ex presidente dell’Iri, poi premier-privatizzatore e presidente della Commissione Ue a cavallo della nascita dell’euro, l’intervento diretto dello Stato è consigliabile non solo in funzione di stimolo della ripresa attraverso investimenti infrastrutturali, ma anche nel consolidare la proprietà delle piccole e medie imprese. L’obiettivo strategico sarebbe l’accelerazione per via dirigista di “riaggregazioni” nelle filiere del Made in Italy.
In questo processo lo Stato svolgerebbe il ruolo di sostituto dell’investimento privato: che le famiglie o altri operatori di mercat0 non riuscirebbero a garantire in quesa fase recessiva. La Cdp come “fondo sovrano” da un lato promuoverebbe fusioni (anche con realtà europee, anche con quotazioni in Borsa) e dall’altro funzionerebbe nell’immediato anche da scudo contro raid su pezzi pregiati dell’Azienda Italia. Dietro il “balzo in avanti” di Prodi è certamente percepibile la volontà della maggioranza di governo di lasciarsi alle spalle la falsa partenza del decreto liquidità – attraverso crediti agevolati offerti attraverso la rete non statale della banche – e di dare forma decisa a una nuova politica di erogazioni “a fondo perduto” alle imprese, attraverso la Cdp, “banca dello Stato”. Una politica gemella di quella assistenziale in sviluppo fra reddito di cittadinanza e di emergenza.
A Prodi ha replicato direttamente il presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi. “Lo Stato faccia il regolatore, stimoli gli investimenti. Sarebbe il momento per rilanciare il piano Industria 4.0. Non abbiamo bisogno di uno Stato imprenditore: ne conosciamo fin troppo bene i difetti”. Le preoccupazioni del nuovo leader di 100mila industriali italiani sono evidenti. “L’aiuto” che il governo Conte-2 promette a migliaia di imprese italiane asfissiate da sette settimane di lockdown nasconderebbe in realtà l’intento di nazionalizzare una parte rilevante dell’Azienda-Italia tornando a una strategia programmatoria: la stessa che – quasi sessant’anni fa – segnò la prima svolta politica dell’Italia repubblicana, con la nascita del primo esecutivo di centro-sinistra.
È sicuramente un’Italia che non c’è più da molto tempo. E il capo degli industriali milanesi – supportato nella candidatura in Confindustria soprattutto da lombardi, triveneti ed emiliano-romagnoli – considera chiaramente esiziale il rischio che la recessione da virus funga da pretesto per far risorgere da un giorno all’altro il Leviatano statale (per molti versi anche sindacale) che ancora negli anni ’70 e ’80 controllava n larga parte l’allocazione dei capitali e dei flussi di reddito nel Paese.
Bonomi parla invece a nome di quelle ventimila imprese che – nei trent’anni successivi al crollo dello Stato imprenditore – hanno ricostruito un quarto capitalismo. Un’Italia che oggi è certamente in trincea con l’intero Sistema-paese, ma che non ha e non vede necessità di far entrare lo Stato come azionista. È un’Italia manifatturiera che ritiene di meritare supporto a prescindere in questa fase dal Governo, da qualsiasi Governo italiano: perché si giudica in grado di poter realmente trainare la “recovery” di un Paese che soffre da almeno una decina d’anni.
È una piattaforma-Paese cui – in molti casi – basterebbe che lo Stato accordasse nell’immediato solo dilazioni fiscali per trattenere liquidità nelle casse aziendali, con cui continuare a pagare dipendenti e fornitori. Sarebbe nel contempo utile, ha sottolineato Bonomi, sapere già che dal 2021 le imprese potranno beneficiare di sgravi tributari strategici sugli investimenti in tecnologie avanzate, ricerca in innovazione, inserimenti occupazionali di giovani attraverso i canali formativi.
Non è sorprendente che una maggioranza di governo Pd-M5S rilanci il ruolo “keynesiano” dello Stato in economia fino alla pretesa di para-nazionalizzare le imprese: il programma del Labour britannico alle elezioni politiche di cinque mesi fa era lo stesso, anche prima del virus. Ma è un fatto che chi oggi muove realmente l’economia italiana non è affatto convinto – anzi – che la politica di contrasto alla paurosa recessione post-epidemia debba appendersi al pendolo dello Stato-imprenditore.