Fa impressione vedere tante persone in fila al banco dei pegni. Molti portano ormai gli ultimi ricordi di valore che avevano in casa. Si stima che 25,2 milioni di italiani (il 41,9 per cento) non hanno abbastanza soldi per pagare affitti, bollette, mutui, spese mediche e rette scolastiche. Con la pandemia che ha bloccato tante attività economiche, anche il dibattito sulla povertà è divenuto drammaticamente attuale. Per fortuna il nostro sistema è stato concepito per contrapporre il meno possibile due esigenze ugualmente legittime: quella dei poveri e quella delle imprese.



I recenti governi nel nostro Paese non hanno brillato per avere una visione chiara di sviluppo economico, adagiandosi invece su politiche più che altro assistenziali che non favoriscono né la creazione di attività produttive né di posti di lavoro, scivolando inevitabilmente verso quella che è stata chiamata decrescita felice, ad esempio con il reddito di cittadinanza e con un’indistinta quota cento.



Qualsiasi società democratica moderna si basa su un sistema di welfare ottenuto dopo lotte centenarie dei lavoratori di tutto l’Occidente, che contiene garanzie di copertura dei servizi assistenziali per tutti, a prescindere dal reddito. Il welfare viene pagato attraverso la tassazione ed è quindi evidente che quanto più l’economia ristagni, tanto meno risorse sono disponibili per pagarlo.

Sappiamo anche quanto sia rischioso tenere un debito così alto di fronte alla dinamica dei mercati finanziari attuali. I casi più clamorosi sono quelli della Grecia e dell’Argentina.
Quello che è davvero incomprensibile è l’esitazione a rilanciare una politica industriale. Se fosse avversione verso il neo-liberismo, colpevole di tante disuguaglianze nel mondo, non si capirebbe comunque la diffidenza verso il mondo della piccola e media impresa, verso le multinazionali tascabili che sono il frutto del genio delle famiglie italiane, verso le grandi imprese con partecipazione statale, anche queste nate da imprenditori illuminati come Enrico Mattei.



Perché contrapporre l’aiuto ai poveri con lo sviluppo del lavoro e delle imprese? Perché anche tanto mondo cattolico pensa che l’imprenditore che fa fortuna debba pulirsi la coscienza con le opere di carità, come se di per sé un’impresa sottraesse valore alla società anziché darlo? Eppure la storia offre esempi di come si possa conciliare una politica di welfare con quella industriale. Franklin Delano Roosevelt ha affrontato la crisi del 1929 con il cosiddetto New Deal che prevedeva grandi investimenti in infrastrutture che hanno lanciato la produzione, la separazione tra banche d’affari e commerciali con il Glass-Steagall Act, la creazione di enti statali per dare una casa ai lavoratori, la tassazione della rendita finanziaria a livelli impensabili in quell’epoca.

Tornando all’Italia del 1946, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, la lotta alla povertà e la conquista di un primo welfare, si è basato sullo sviluppo e sul lavoro. Gli stipendi e i salari crescenti hanno permesso a molti di emanciparsi e le tasse sul reddito hanno finanziato il welfare a livello nazionale e locale. Dove questo non era sufficiente le persone hanno scelto di emigrare, prima all’estero e poi nelle fabbriche del Nord Italia, proprio per lavorare e avere un futuro migliore.

Quello che è importante sottolineare è che politiche assistenziali che prevedono solo trasferimenti di denaro non offrono una prospettiva dignitosa alle persone perché questa può esserci solo con il lavoro.

Come ha documentato un giovane ricercatore dell’Università Cattolica, Francesco Tanzilli, in “La via americana al welfare. Da Kennedy a Bush” (Guerini e Associati), gli interventi basati su sussidi nelle grandi periferie urbane americane degli anni Sessanta, per quanto fossero riuscite a placare le tensioni sociali di carattere raziale, non generarono un deciso impulso verso l’emancipazione delle persone.

Incentivare iniziativa e creatività attraverso istruzione, educazione, lavoro, impresa è la strada che meglio rispetta la dignità delle persone e il loro bisogno di assumersi la responsabilità della propria vita.

Anche oggi, per rispondere alla grave emergenza che stiamo vivendo, in fondo, non dobbiamo reinventarci niente, ma potenziare quello che è stato nella nostra storia il grande protagonista della lotta alla povertà: la collaborazione tra welfare state e la welfare society sussidiaria resa possibile dallo sviluppo economico e da una cultura di responsabilità e consapevolezza.

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori