La Parata della Vittoria a Mosca si farà presto, il 24 giugno, il giorno in cui nel 1945 le truppe dell’Armata Rossa, di ritorno dalla marcia finale su Berlino, sfilarono trionfalmente sulla Piazza Rossa. Gli alti livelli del contagio del Covid-19 in Russia hanno costretto a cancellare la tradizionale manifestazione del 9 maggio, ma ora, sebbene la situazione dell’epidemia nel paese continui a restare drammatica, Putin ha rotto gli indugi e nei giorni scorsi ha fissato per questa data ormai prossima l’evento più spettacolare e ideologicamente “coinvolgente” dell’anno: la parata commemorativa della vittoria nella seconda guerra mondiale, che in un recente comunicato ha definito una “festa sacra per milioni di persone”.
Nel paese si è immediatamente messa in moto la gigantesca macchina dei preparativi, richiamando uomini e mezzi nella capitale, si stanno fissando le date per le grandi manovre e le prove generali che precedono ogni anno la parata. All’invito del presidente russo hanno già risposto affermativamente i presidenti di paesi satelliti come l’Abchazia e l’Ossetia meridionale, e inoltre i capi di Stato del Kazachstan e della Moldavia. Non è chiaro che tipo di rappresentatività internazionale potrà esserci, ma la mobilitazione interna è già cominciata.
Questa decisione è tanto più strana perché in aprile, quando il Cremlino aveva deliberato di rimandare la Parata della vittoria, aveva fissato per il suo svolgimento la data del 3 settembre. A indurre Putin ad abbreviare i tempi e ad anticipare significativamente un evento pubblico di tale portata, nonostante gli inevitabili costi in termini di salute e di vite umane che tale decisione comporta, secondo gli analisti è stato innanzitutto il rapido deteriorarsi della sua immagine, a cui si assiste nelle ultime settimane. Da più parti si sottolinea che la macchina propagandistica rischia di perdere il contatto con il paese, in isolamento da ormai due mesi, in preda a una grave crisi economica oltre che a un’epidemia di cui non si conoscono i dati reali ma che certamente supera per entità complessiva e soprattutto numero delle vittime quanto dicono le cifre ufficiali.
Non è la prima né l’unica volta in cui a un’urgenza reale si risponde con una “vetrina” ideologica. A chi, rinchiuso tra le quattro mura di casa e alle prese con i problemi di salute, la perdita del lavoro, gli interrogativi sul futuro, comincia a porsi domande scomode, si risponde mostrando uno Stato forte, dotato di armi uniche al mondo, capace di farsi rispettare ovunque e di svolgere un ruolo–chiave nell’arena internazionale. Un messaggio che non può aspettare fino a settembre, tanto più che la memoria della “grande guerra patriottica” (come in Russia viene chiamata la seconda guerra mondiale) resta probabilmente l’unica corda in grado di coinvolgere emotivamente milioni di persone. Ma in che termini?
È vero, non c’è persona o famiglia che nel territorio dell’ex Unione Sovietica non riviva ogni anno, drammaticamente, le vicende della guerra, che non commemori uno o più familiari o conoscenti caduti o dispersi; l’ho constatato anche nei giorni scorsi, nei messaggi e sulle pagine Facebook di tanti amici, anche giovani, che non solo non hanno visto la guerra ma non hanno conosciuto neppure l’epoca sovietica. Questa memoria, questa ferita è confitta nel profondo. Ma se l’intento dello Stato è quello di sfruttare la Vittoria per “rappresentare l’intera storia sovietica come un susseguirsi di gloriosi successi e grandi vittorie”, senza peritarsi, se necessario, di “rimuovere dalla memoria i delitti più efferati del regime sovietico” – come ha fatto notare la Fondazione Memorial in occasione delle recente rimozione a Tver’ delle targhe commemorative dell’eccidio di oltre 20mila prigionieri polacchi a Katyn’, perpetrato tra l’aprile e il maggio 1940 dall’esercito sovietico –, la memoria dei singoli assume sempre di più i toni della dolente pietà di Antigone. La memoria della guerra si identifica con il dovere di onorare le vittime di un mostruoso conflitto, di porre al centro il loro personale sacrificio e non ridurle a strumento di una macchina propagandistica del passato e del presente.
“I monumenti funebri, gli epitaffi, i fiori sulle tombe non ci fanno vedere, non ci fanno cogliere l’anima di un defunto, il suo amore e il suo dolore. La pietra, la musica, il pianto, le preghiere non sono in grado di trasmetterne il mistero. E di fronte alla sacralità di questo mistero muto le fanfare e i tromboni dello Stato, la saggezza della storia, la pietra dei monumenti, le parole e le preghiere gridate meritano solo disprezzo. Sono loro, la morte”. Queste parole appartengono a Vasilij Grossman, lo scrittore russo che forse più di ogni altro ha vissuto in profondità la gloria e la tragedia della guerra mondiale.
Il vero custode e portatore della memoria, della grandezza del popolo russo non è chi mostrerà sulla piazza Rossa i muscoli della potenza bellica, senza troppo preoccuparsi della salute e del benessere del “materiale umano” impiegato nella kermesse, ma chi ha avuto il coraggio di firmare una lettera aperta promossa dall’Accademia russa delle Scienze, in merito alle targhe commemorative del massacro di Katyn’, e di riconoscere: “Trent’anni fa era stato possibile affiggere quelle targhe perché il nostro Stato aveva riconosciuto e condannato i delitti del passato; la Russia post-sovietica si rifiutava di concepirsi come erede e continuatrice del regime totalitario. Averle rimosse è il segno che ci stiamo muovendo in senso opposto, verso la riabilitazione dello stalinismo e delle sue gesta dentro e fuori il paese; è il segno che ci riconosciamo suoi eredi. Ma questo automaticamente fa ricadere la responsabilità dei suoi delitti sulla Russia di oggi”.