Nelle settimane appena trascorse, e probabilmente anche in molte di quelle che stanno per arrivare, la scuola ha riguadagnato una lusinghiera centralità nel dibattito pubblico nazionale: esperti, associazioni, genitori, tecnici ministeriali e politici forniscono quasi quotidianamente input problematici o risolutivi circa uno dei settori più delicati per questa fase di convivenza con l’epidemia di Covid-19. In un tempo in cui le opinioni hanno un gigantesco mercato, aggiungere un’altra riflessione su questo tema appare dunque quanto mai temerario, se non inutile.



Per questo può essere più fruttuoso, a livello comunicativo, precisare meglio il perimetro tecnico, e si potrebbe dire morale, di ogni discorso sensato su questo tema.

Anzitutto è bene ricordare che impropriamente si usa il termine “scuola” al singolare: le scuole in Italia sono tantissime, per tipologia, organizzazione, target e gestione. E’ chiaro a tutti che è molto diverso occuparsi di un bimbo dell’infanzia o di un adolescente della secondaria di secondo grado, eppure in Italia – complice una normativa che ha come committente le esigenze economiche più che quelle educative – si tende a trattare il mondo della scuola come un unum in nome del quale avrebbero senso frasi come “riapriamo le scuole”, “se il contagio risale le scuole vanno chiuse”, “la scuola deve cambiare”, “sciopero del mondo della scuola”.



Chiunque sia un po’ avvezzo all’ambiente scolastico sa benissimo che niente come il pianeta scuola si presta meno ad essere generalizzato o trattato in modo omogeneo: c’è scuola e scuola, c’è fase della vita e fase della vita, c’è contesto e contesto. Tutte le diatribe sulla scuola non troveranno mai un punto di partenza finché il mondo dell’istruzione sarà trattato come un moloch compatto e uniforme da governare, come una costante che dentro ogni formula si può già supporre che cosa la inficerà e che cosa invece le darà più valore.

Un ragionamento simile, per altro molto semplice, si accompagna ad un’altra considerazione apparentemente di poco conto: nel nostro paese, dal dopoguerra ad oggi, si è voluto normare in modo preciso la relazione educativa, ossia la cosa meno normabile dell’universo. La nostra società ha permesso, in nome dei diritti (parola sacrosanta) e della responsabilità (parola decisiva oggi in ogni contenzioso), di imprigionare le dinamiche educative entro un perimetro di regole in cui si può anche fare a meno di essere vivi perché funzionino.



E tutto, in fondo, viene contabilizzato con un’unità di misura vecchia e anacronistica come “l’ora”: un docente ha delle ore da fare, i ragazzi hanno un monte ore da svolgere, i genitori possono essere ricevuti per un certo numero di ore, perfino lavorare con i colleghi per un’idea deve rispondere ad un incarico orario adeguatamente retribuito. Siamo prigionieri di un metro in cui sarà sempre impossibile fare un ragionamento compiuto.

Siamo così sicuri che in 726 ore di latino (tante se ne fanno in cinque anni al liceo classico) si impari davvero che cosa voglia dire per la vita di una persona tradurre il latino? Si potrebbe perfino osare domandare alla Conferenza episcopale italiana se 165 ore di insegnamento della religione cattolica alle superiori siano esattamente quello di cui c’è bisogno per rieducare alla coscienza della fede un’intera generazione: è l’ora l’unità di misura più corretta per retribuire un docente, per formare uno studente, per ricostruire moralmente un popolo?

E poi: siamo sicuri che basti avere fatto il precario per anni (tifosi delle graduatorie) o aver vinto un concorso (tifosi del merito) per poter insegnare? Non è che serve ripensare che cosa significhi avere l’idoneità, la licenza, all’insegnamento? Infine: seriamente immettere più insegnanti nel sistema dell’istruzione significa investire nella scuola?

Tutti teniamo famiglia, nessuno ce l’ha con i precari, con i docenti, con i presidi, con i sindacati: è chiaro che ciascuno fa la sua battaglia e che, per amore di sopravvivenza, ognuno finirà per essere sempre un po’ partigiano, ma è chiaro a questo sistema iper normato, iper  attento, iper protettivo e iper garantista nei confronti del sacro pargolo o del canuto docente che l’obiettivo della scuola è che due persone, un adulto e un ragazzo (o un bimbo) si incontrino e abbiano tempi, spazi, mezzi perché quest’incontro lasci reciprocamente traccia nelle loro vite?

D’altro canto: esiste una formula, una struttura in plexiglas o un’informativa della privacy che possa assicurarci che quell’incontro avverrà davvero e avverrà in modo sano per entrambi? E’ come se, a furia di parlare astrattamente di un sistema con terminologie e categorie che quel sistema non lo reggono, ci si fosse dimenticati del Tu, ci si fosse distratti sull’Io. Si fosse persa, in poche parole, la voglia – ma diciamo pure la domanda – di un’avventura educativa.