La “fase 3” dell’emergenza coronavirus si è già da qualche tempo annunciata come un momento di forte “turbolenza” fatto di incertezza, agitazione, rivendicazione di ascolto e di aiuto concreto da parte di ogni comparto.

La maggior parte dei settori ha sofferto, e la preoccupazione è più che comprensibile. Bisogna però augurarsi che questo momento non si trasformi in uno scomposto “assalto alla diligenza” di tutti contro tutti, per cercare di garantirsi quanto più possibile. Si spera, insomma, che prevalga un senso di comunità capace di tenere insieme i bisogni immediati e le prospettive di medio-lungo termine, anche per chi verrà dopo.

Per intraprendere questa strada bisognerà fare il contrario di quanto avviene durante le turbolenze in alta quota: bisognerà togliere il pilota automatico e mettere intelligenza, conoscenza e mano esperta nelle manovre, “con quella realistica e creativa immaginazione, capace di abbandonare la logica della ripetizione, della sostituzione o della conservazione” di cui ha recentemente scritto papa Francesco.

C’è un pilastro della casa comune che, come ormai tutti sanno, ha permesso che la crisi del Covid-19 non avesse conseguenze ben peggiori: è il Terzo settore.

A proposito di automatismi da evitare, ce ne sono alcuni che riguardano questa realtà.

Il primo concerne la specifica configurazione di questo mondo in Italia, in cui spesso non si riscontra una netta distinzione tra il non profit che fa impresa e produce beni e servizi e quello più incentrato sul volontariato e sulla partecipazione.

Tutto il cammino che ha portato alla riforma del 2017 è stato caratterizzato dal grande impegno del mondo del Terzo settore nel fare presente che questo mondo è variegato e mal si presta a modelli rigidi.

Ci sono tante associazioni e fondazioni nelle quali convivono la produzione di servizi di utilità sociale con un grandissimo coinvolgimento di volontari (mentre la disciplina dell’Impresa sociale pone un tetto molto basso alla loro presenza). E ci sono cooperative sociali che, pur agendo come imprese, sono profondamente coinvolte con il loro territorio e raggiungono l’agognato pareggio di bilancio ricorrendo a forme non considerate prettamente imprenditoriali dai “puristi” dell’impresa (quali le raccolte di fondi e le donazioni), e questo non perché siano guidate da imprenditori scadenti,  ma perché fanno lavorare persone con problemi, talvolta con una produttività bassa, ma facendo comunque risparmiare lo Stato, che senza questi luoghi produttivi dovrebbe spendere più soldi in assistenza.

In generale, bisogna poi considerare che il valore economico non risiede solo nell’impresa, ma anche nelle forme di dono non caratterizzate da scambi, ma da gratuità. Gli esempi si sprecano, uno fra tutti: il Banco Alimentare. In periodi come questi si scopre che organizzazioni fondate sul dono sono delle risorse imprescindibili per ogni ripresa, anche per la loro capacità di coinvolgimento delle persone che sono attratte dalla gratuità.

L’Italia è costituita da realtà di Terzo settore che nascono dal basso. È vero, sono difficilmente replicabili. Ma è anche la loro forza: sono pezzi unici. Hanno anche una ben precisa impronta, in quanto di solito nascono da profonde esperienze personali: una malattia, un figlio che muore, un bisogno incontrato, il desiderio di cambiare una situazione. Spesso diventano grandi ed efficienti, ma se smarriscono la ragione per cui sono nate vanno in crisi. Spesso fanno anche fatica a mantenersi economicamente. La loro vera capitalizzazione è però un forte capitale umano.

C’è un altro automatismo da scalzare nel modo in cui viene concepito il Terzo settore: questo non è solo un mondo che eroga servizi, a volte erroneamente concepito come subfornitore della Pubblica amministrazione. È un mondo che incontra i bisogni, li accoglie, inventa soluzioni, accompagna le persone e costituisce un luogo in cui possano essere se stesse. Con le loro storie e le loro fragilità.

È di questa “società” che si esprime in opere fermento delle comunità che l’Italia oggi ha più che mai bisogno. Forse c’è più bisogno di questi luoghi che di enti erogatori di servizi che realizzino un welfare perfetto, curando o assistendo una parte della persona senza saperla accompagnare ed accogliere tutta intera.

È questo più che mai il momento del welfare comunitario. Quindi, ben venga l’annuncio nel “piano Colao” di voler dare compimento a una riforma rimasta sospesa e che continua a creare grandi disagi nell’operatività di queste realtà fondamentali per la vita delle persone. Ma va fatto con cognizione di causa, cioè continuando “sussidiariamente” il lavoro di riforma con gli attori di questa riforma, cioè il mondo del Terzo Settore.

Non si può, infatti, pensare di regolare un mondo così creativo, vivace e al contempo complesso come il Terzo settore italiano senza il suo coinvolgimento. Ne scaturirebbero provvedimenti astratti, che anche con l’intento di fare bene, creano inutili e dannosi ostacoli al suo sviluppo.

In questo momento siamo al rush finale di una riforma che sembra non concludersi mai. È arrivato il momento di emanare i provvedimenti mancanti, di ottenere le autorizzazioni europee sul trattamento fiscale e di uscire da questo periodo di incertezza in cui anche costituire una associazione è complicato. Il Terzo settore ha bisogno di leggi semplici e chiare, che non facciano perdere in interpretazioni il tempo che questo mondo vuole e deve dedicare all’incontro e all’abbraccio delle persone e dei loro bisogni, continuando così ad essere il collante e il soggetto generatore del nostro tessuto sociale.