La fervida preparazione per il più grande show della stagione sta catalizzando energie e pensieri di gran parte del Governo. La fase dello streaming in diretta per dimostrare che tutti sono la stessa cosa di tutti e della urlata trasparenza (degli altri) a tutti i costi, lascia il passo alle porte chiuse degli esperti e dei potenti (così almeno appaiono) chiamati a dare lustro ad un esecutivo in cerca di autore che ha accantonato le origini del suo partito di maggioranza, origini definite “il tempo della immaturità”, e che ha abbracciato gioioso le dinamiche della competenza e della riservatezza.
Non sono bastate le slide di Colao a dare qualche consiglio e non serve neppure il Parlamento, a quanto pare, che con i suoi mille eletti esprime, evidentemente, una capacità di elaborazione prossima allo zero. La forma scelta non è felice e riecheggia un po’ l’Ancien Régime, un po’ la Terza Internazionale Comunista ed un po’ l’evento grillino annunciato e mai tenuto. Alla fine somiglierà ad un convegno di giuristi canuti che si diletteranno negli arcana iuris fingendo di farsi complimenti per accoltellarsi dopo le premesse.
Eppure basterebbe qualche Ted Talk, qualche webinar di ottimo livello già tenuto in queste settimane o anche uno sguardo ai tanti commenti dagli operatori economici che invocano concretezza, per sapere esattamente cosa fare.
Oppure basterebbe seguire la linea che questi giorni è emersa con il provvedimento sulla famiglia che, tra tante cose più o meno apprezzabili, ha inserito una norma importante. Le aziende che assumeranno nel Mezzogiorno delle donne godranno di benefici specifici e maggiori rispetto all’assunzione di uomini. Non è un caso che la norma venga da Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud, che già la scorsa settimana ha ritirato la sua presenza ad un webinar per l’inesistente rappresentanza femminile tra gli oratori.
Non è un caso che venga da chi studia economia e sa che una società evoluta è tale quando il tasso di occupazione di uomini e donne tende a pareggiarsi, perché una società in cui le donne lavorano e producono, libere di farlo ed in condizione di parità, è una società che esprime rispetto e modernità.
La scelta non è banale ed è molto simbolica. Il Mezzogiorno vive nella piena crisi di questi mesi un ritardo storico nel supportare giovani e donne, eppure lì c’è il vero potenziale inespresso. La maggior parte delle presenze femminili nei Cda delle partecipate pubbliche ha radici nel Nord, che ha cresciuto una classe dirigente al femminile e che riesce a dare il proprio contributo, mentre molte giovani donne hanno dovuto lasciare il meridione per trovare una propria dimensione professionale in cui non vi fosse un gender gap talmente brutale da escluderle da ogni possibilità. Resistono eccellenze al femminile nella ricerca e nella pubblica amministrazione del Mezzogiorno, ma poco o nulla si vede nei ruoli dirigenziali delle imprese private o pubbliche.
Ed è questo il sintomo di una società che esclude un pezzo importante di se stessa e crea una vite infinita di pregiudizi difficile da fermare. E non è un caso che a proporla sia un uomo del Sud che ha vissuto un humus culturale di nonne che fanno solo il ragù e che spesso non hanno potuto, più che voluto, esprimere se stesse.
Non sarà certo qualche punto di costo del lavoro in meno a fare la rivoluzione, ma è innegabile il valore simbolico della scelta; e il fatto che sia stata così poco enfatizzata, rispetto alle note vicende del convegno del potere a Villa Pamphili, fa sorgere il dubbio che sia rimasto il riflesso condizionato della ricerca dello show autocelebrativo come obiettivo reale del Governo piuttosto che il desiderio di fare bene ciò che si deve e farsi giudicare per quello.