Ricorrono i cinquant’anni dal “partido del siglo”, Italia-Germania 4-3 ai supplementari, mondiali di calcio del 1970, stadio Azteca di Città del Messico, 17 giugno, ore 16, mezzanotte in Italia. E questo sì che è un anniversario che andrebbe degnamente celebrato. Non è il più grande traguardo sportivo raggiunto dalla nazionale, che i mondiali li ha vinto quattro volte, due prima e due dopo quelli lì; ma è la partita di maggior carica emotiva e di maggior valore emblematico.
Nel dopoguerra la nostra nazionale di calcio aveva contratto un coronavirus che non sembrava finire mai: persa la guerra, persi i supercampioni del grande Torino nello schianto dell’aereo a Superga, persi da poveri pellegrini i mondiali di Svezia ’58, Cile ’62 e Inghilterra ’66, in questi ultimi penosamente spediti a casa dal maledetto gol di un oscurissimo dentista coreano di nome Pak-Do-Ik. Anche i mondiali del ’70 cominciarono gnecchi gnecchi, passammo il turno col minimo sindacale. Sarà che eravamo in Messico, che faceva un caldo bestia, che si giocava a 2000 metri e passa sul livello del mare, sarà che … Comunque il primo gol lo prendemmo alla quarta partita, con il Messico, che però si buscò quattro pappine da noi che volammo in semifinale ad affrontare i panzer tedeschi, vittoriosi sui campioni mondiali uscenti britannici, e favoritissimi.
La partita è da rivivere. Segna Bonimba all’ottavo e non ci par vero, ma è vero. Seguono 84 minuti giocati dignitosissimamente alla pari, noi ancorati al consueto modulo difensivistico. Al ’90 sembra fatta. Invece salta tutto. Irrompe l’imprevisto. Quel venduto dell’arbitro messicano col nome da moto giapponese, Yamasaki, non fischia la fine. Il crucco terzino milanista Schnellinger per la prima volta nella vita si porta nella nostra area e segna a tempo scadutissimo. Stramalediciamo il biondo germanico. Supplementari. Il nostro Rosato per la prima volta nella vita commette in facile azione difensiva un errore da scapoli contro ammogliati e regala il vantaggio alla Vermacht. Il morale ci scende sotto i tacchi. È finita. Ma il mastino friulano Burgnich, dal nome poco esotico Tarcisio, per la prima volta nella vita raggiunge l’area avversaria e segna un pari che ci ridà autostima e patriottismo. Avanti. Diagonale potente e preciso, e Gigi Riva Rombo di Tuono ci porta il punteggio a nostro favore e il cuore oltre ogni ostacolo. Dal trono alla polvere. Gianni Rivera, pallone d’oro 1969, ma qui umiliato a quasi riserva, per la prima volta nella vita si trova sulla linea della propria porta a fare l’unica cosa che non sa fare, l’estremo difensore, col pallone che entra beffardo tra l’anca del golden boy e il palo del furibondo Albertosi. E siamo daccapo. Ma Rivera ci mette meno di un minuto a compiere il riscatto definitivo: imposta una bella azione corale, e si fa trovare pronto a concluderla, portiere a sinistra e palla a destra.
La “notte delle prime volte”, l’ha definita Nando Dalla Chiesa, che ci ha scritto un bel libro. Le “prime volte” sono una continua sfida che richiede un continuo nuovo inizio. Ecco, la capacità indomita non di seguire con asettica diligenza i dettami delle teorie, ma di sprigionare l’energia creativa di una continua ripresa è quello che ci ha mandati in visibilio quella notte. È la capacità di non lasciarsi interamente determinare dal contesto. Che, nella fattispecie, non era affatto favorevole. Non lo era il contesto cultural-politico dominante, che mostrava di considerare il calcio una esecranda distrazione borghese. Non quello del potere calcistico, che per mai ben comprese manovre metteva in panchina il suo Ronaldo (e menomale che Valcareggi inventò la staffetta con Mazzola). Non lo era il potere mediatico, Gianni Brera in testa, che ce l’aveva a morte con l’abatino dal pallone d’oro perché non corrispondeva alla sua fede nel catenaccio e nel calcio atletico dei britannici.
I fattori decisivi di quell’impresa furono due: gli “io” dei giocatori, e la loro amicizia, favorita da un premier, pardon un allenatore, Uccio Valcareggi, che non faceva mai la prima donna.
Gli “io” si erano formati in una storia. Nati fra il 1939 e il ’45, tempo di guerra (Bertini era detto il Rufugino perché la mamma lo partorì in un rifugio antiaereo); infanzia nell’Italia con le unghie e con i denti del dopoguerra; passione e capacità di tirar calci alla palla coltivata nelle comunità dell’oratorio e delle umane periferie; primi guadagni portati in casa per far stare un po’ meglio i genitori.
E poi l’amicizia. Il contesto, come visto, cioè il potere, tendeva a dividerli, a metterli l’uno contro l’altro. Nessuno di loro è caduto nella trappola. Ognuno ha accettato di fare la propria parte, anzi molto di più.
Si fossero arroccati nell’osservanza pedissequa degli schemi decisi a tavolino (o ai tavoli delle task-force), o avessero ceduto ai particolarismi delle sette, congreghe e comitati d’affari vari, non avremmo avuto la meraviglia di quella luce che per qualche ora ha squarciato le tenebre di un’Italia ideologica e conflittuale ormai sulla soglia degli anni di piombo.
Gli italiani godettero di quello spettacolo, di quella esperienza, ma rimasero alla superficie, perché non ne scrutarono il segreto e non si interessarono delle ragioni. Non impararono la lezione a riguardo del “nuovo inizio”, dell’io e dell’amicizia.
È esattamente lo stesso rischio che corriamo adesso.