Sembra quasi paradossale. Gli Stati Uniti, il Belgio e il Regno Unito sono tra i Paesi occidentali più colpiti dal Covid-19. La realtà della pandemia ha fatto irruzione con forza distruggendo, con la sua irriducibilità, opinioni e interpretazioni. È difficile diluire l’oggettività dei morti, dei malati, i problemi del sistema sanitario e la crisi economica. Eppure è in questi Paesi che la guerra delle statue è stata più feroce.



Colombo, Leopoldo II e Churchill sono finiti nel mirino. La lotta contro il razzismo, sempre necessaria, ora richiede di abbattere la memoria di pietra. Ci si scaglia contro figure così disparate e lontane tra loro come lo scopritore dell’America e un monarca belga responsabile delle più grandi atrocità del colonialismo contemporaneo. Quando un fatto biologico si è imposto in modo incontestabile, alcuni hanno avvertito la necessità di cancellare i fatti, personaggi in questo caso complessi, con la ghigliottina di un giudizio anacronistico.



La ghigliottina che decapita le statue viene affilata tramite un catalogo di valori che tende a semplificare la complessità della storia. Colombo non era un santo, ma nemmeno un genocida. La sua scoperta e la successiva conquista dell’America sono piene di ombre, ma hanno generato un fecondo meticciato che ha inaugurato l’Età Moderna e permesso lo sviluppo dei diritti umani universali. Senza Churchill sarebbe stato più complicato porre fine al razzismo nazista.

La guerra delle statue mostra il conflitto tipico del nostro tempo tra l’identità e i fatti. È più facile che sia l’identità (in questo caso pensata e decisa al margine della realtà) a determinare i fatti, quando la cosa più sana e normale è l’opposto, ovvero che siano i fatti a configurare l’identità. La chiarezza, non ancora raggiunta pienamente all’atto pratico, sull’uguaglianza tra tutti gli uomini (in realtà non esistono razze) e sull’abominio del razzismo passa attraverso un lungo e complesso processo storico. La nostra identità di persone del XXI secolo, coscienti che “Black Lives Matter”, non nasce da un esercizio astratto di ingenuo manicheismo.



I fatti, con la loro testardaggine, sono ciò che ci modella. Prima della pandemia, avremmo potuto scegliere un’identità anti-globalizzazione, sovranista, a favore della chiusura dei confini per i migranti. Ma i fatti ci hanno mostrato che senza la manodopera straniera, che vive nei nostri Paesi irregolarmente, le nostre economie non stanno in piedi: sono a rischio i raccolti nei campi. Italia e Portogallo hanno dovuto regolarizzare un buon numero di migranti. Sono stati meno in Spagna, ma il Paese ha realizzato che senza i 700.000 irregolari che conta ci sono molte cose che non funzionano.

Avremmo anche potuto scegliere un’identità da globalista ingenuo perché convinti che la libera circolazione di capitali e merci, senza confliggere con le libertà di ciascun Paese, fosse sufficiente a garantire una vita relativamente prospera, sicura e pacifica. Ma ci siamo resi conto che la mancanza di una fornitura nazionale o regionale di alcuni beni (come le mascherine o determinati medicinali) e la dipendenza da un mercato globale ci rende vulnerabili ai poteri con sogni imperiali come la Cina. Un buon avviso sullo sviluppo del 5G.

Ci siamo accorti dei pericoli di una globalizzazione solo economica senza un governo mondiale, senza un G20 efficace. Ci siamo resi conto che non possiamo avere un’identità globale che si disinteressi dei problemi di libertà e diritti umani in un angolo del pianeta. La scorsa settimana le immagini satellitari di Wuhan, analizzate da un gruppo di ricercatori di Harvard, hanno rivelato che il virus stava già imperversando in città l’estate scorsa. È chiaro che la mancanza di trasparenza del regime comunista non era un problema locale e ci ha riguardato tutti.

Gli esempi possono essere moltiplicati quasi all’infinito. Mettiamone uno in più. Avremmo potuto mantenere un’identità anti-europea. Ma con tutta la goffaggine e i ritardi, sembra che l’Unione europea (con il suo piano da 700 miliardi di euro) sarà uno dei migliori posti al mondo per superare la nuova crisi.

Un’identità non forgiata dai fatti, un’identità che li seleziona e si difende da essi è sempre un’identità debole. Così debole che deve usare la censura per difendersi da film come Via col vento. Il meccanismo è stato spiegato da Jonathan Haidt e Greg Lukianoff, secondo cui gli attuali studenti delle università del loro Paese, rinchiusi in bolle ideologiche e iperprotetti, si sentono attaccati e offesi da quasi tutto ciò che non coincide con una visione del mondo molto restrittiva. Sono vittime della paura.

La paura è all’origine e alla fine dell’identità pensata in opposizione alla realtà. C’è in questo XXI secolo una corrente sotterranea dissociata, che non si accetta, non accetta la storia da cui proviene, non accoglie il presente che potrebbe guarirla.