Sono di ieri le ultime previsioni sul calo del Pil per il 2020. Arrivano dalla Bce e parlano di un meno 8,7 per cento nell’Eurozona. Per il nostro Paese, pochi giorni fa, la Banca d’Italia stimava un meno 9 per cento e, in caso di ritorno del contagio, addirittura un meno 13 per cento.
Nella realtà tutti sanno che se è sempre difficile prevedere fenomeni così complessi, come la crescita, lo è molto di più in questo momento, quando i cambiamenti in cui siamo immersi possono essere radicali e imprevedibili.
Sappiamo ad esempio che il lockdown ha accelerato alcuni trend già cominciati, quali quelli relativi all’information technology, ai nuovi strumenti di marketing, all’organizzazione delle attività con ripensamento dei ruoli, delle responsabilità e dei processi.
Ma come cambieranno i consumi? Quali settori saranno più in grado di imboccare la direzione vincente? Come influiranno gli scenari geopolitici? Emergeranno leader in grado di orientare le scelte con efficacia e chiarezza?
Queste e molte altre incognite rendono arduo il lavoro di chi deve fare previsioni. E c’è un ulteriore elemento che influisce, e investe tutti gli altri, in maniera determinante e consiste nel come verrà concepita la crescita. Si sta parlando molto del ritorno dello Stato come motore dello sviluppo, ma a prescindere da quanto leggera o pesante si voglia la sua mano a condurre le sorti economiche del Paese, c’è un punto che in Italia è ancora più urgente affrontare e con cui dovremmo prima o poi “rappacificarci”. Riguarda la cultura dell’impresa e del lavoro, il ritorno al posto d’onore della “voglia di fare”, di costruire, prima che per la ricchezza personale, per la propria crescita come persone e per il contributo che alla fine tutti sentono di voler dare al mondo. In altri termini, va riconsiderato il ruolo dell’impresa per lo sviluppo, per la coesione sociale, per la crescita dell’occupazione, e quindi per la crescita delle persone.
Il racconto, anche drammatico, dei titolari d’impresa durante il lockdown può forse far recuperare uno sguardo sull’origine del “creare” imprenditoriale.
Nessuno degli imprenditori che conosco si è mai davvero fermato, alcuni hanno riorganizzato il loro business, altri hanno ripensato al posizionamento della loro attività, altri hanno sperimentato nuove strategie di marketing, altri ancora hanno reinventato completamente una nuova attività. L’imprenditore di uno dei settori più colpiti, quello della ristorazione, ha accusato così il colpo: “Non si va al ristorante soltanto per mangiare, ma per l’emozione che l’essere in quel luogo offre. Dopo il Covid-19 dovrà esserci un nuovo modo per continuare a garantire un’esperienza, che però sarà diversa. Ho capito che non devo più solo vendere un prodotto, ma anche il servizio annesso”.
“Mi sono reso conto che per navigare a vista – ha detto un imprenditore meccanico – c’è bisogno ad esempio di conoscere molto di più come è fatta la tua azienda, quali sono i numeri, le dinamiche, la struttura organizzativa. E soprattutto occorre imparare a stare vicino ai clienti. Piccoli spiragli che si aprono adesso possono implicare grandi cambiamenti”.
Un altro ha avuto modo di rialzare la testa e superare alcuni pregiudizi anti-europei: “Se non ci fosse stata la politica agricola europea, non saremmo riusciti a tenere i supermercati pieni”. Oppure, il titolare di un’azienda vinicola ha superato l’avversione nei confronti degli strumenti digitali: “Grazie all’uso della tecnologia, a cui ho dovuto arrendermi, mi sto inserendo in mercati che prima non avevo pensato di poter conquistare”.
La quarantena ha facilitato riflessioni di fondo sulla propria attività: “Lavorando in smart working mi sono accorto meglio di come sono le dinamiche all’interno dell’azienda, di come sono i processi nelle varie fasi, di come sono le comunicazioni interne. In particolare, mi sono reso conto del valore dell’azienda, che sono le relazioni, prima di tutto con il mercato: la mia azienda dà qualcosa di buono al mercato? E poi le relazioni con i clienti, con i dipendenti, con i fornitori”.
Così ha reagito un altro imprenditore di uno dei settori più colpiti: “Con il mio hotel chiuso sto lavorando molto per tener vivi i contatti con l’estero”.
È anche capitato che in una situazione così difficile qualcuno si sentisse richiamato alla sua responsabilità sociale: “Abbiamo pensato che ognuno dovesse essere responsabile del suo pezzo e così abbiamo deciso di non rimandare il pagamento dei fornitori”.
Tutto cambierà ma, nel bene e nel male, niente sarà automatico e dipenderà dalla reazione e dalle scelte che verranno fatte. Non ci sono ricette facili, soprattutto quando si è atterrati e non basta sopravvivere, ma occorre rialzarsi e tentare uno scatto avanti per non rimanere definitivamente al palo.
“Più che cercare di prevedere, meglio imparare a osservare”, ha detto un altro imprenditore che ha aggiunto: “sorpreso dalla capacità di reazione delle imprese più colpite, mi sono messo a imparare dai loro esempi”.
Cercare di capire, confrontarsi, suggerire esempi e soluzioni. Nel lungo periodo vince chi è aperto ad ogni possibilità, chi sa leggere la realtà, chi sviluppa anche nel lavoro una giusta potenza affettiva. È quello che è richiesto a chi non vuole rassegnarsi a una decrescita “infelice”: provare a reinventare l’economia italiana.