The First Invasion of America” è il titolo di un editoriale di David Brooks uscito qualche giorno fa su The New York Times. Brooks, brillante editorialista, spiegava che il suo Paese “era rimasto immune a invasioni dall’esterno e alla corruzione del vecchio mondo. Per gli Stati Uniti era abituale rimanere al margine delle pestilenze che colpivano le altre parti del pianeta”. Questa sensazione di essere al sicuro dalle sciagure, secondo Brooks, finora si è tradotta in termini esistenziali: “Nascere statunitense significava essere un individualista coraggioso, audace e autosufficiente”.



Isolati tra due oceani ci si può sentire al sicuro, anche se un bianco a Boston o a Sacramento lo si sentirà certamente di più rispetto a un nero a Minneapolis. Il giornalista, però, ha la lucidità di indicare cosa la pandemia ha significato per un Paese nel quale sono morte più di 100.000 persone_ “La vecchia idea statunitense sulla mancanza di vincoli poteva contenere un torrente di energia, tuttavia l’identità che è cresciuta nelle ombre dell’epidemia può essere un’occasione per condividere la vulnerabilità e l’umiltà che emergono quando si avverte la precarietà della vita”.



Brooks in queste circostanze ritrova il valore della vulnerabilità che si è fatto largo in alcuni esponenti culturali con un certo seguito negli Stati Uniti. Una di questi è la ricercatrice Brené Brown della Università di Houston, arcinota per la sua conferenza nel sito TED sul potere della vulnerabilità e che ha fatto furore con il suo documentario su Netflix di un anno fa. La sua tesi, dopo decenni di ricerche, è semplice: la forza della relazione tra le persone non è nel nascondere bensì nel mostrare le proprie debolezze. Un messaggio liberatorio in un mondo nel quale le esigenze di successo personale, professionale e finanziario sono asfissianti. Una ventata d’aria fresca in un Paese dove “l’auto-sfruttamento” è all’ordine del giorno.



Negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, la vulnerabilità esistenziale di cui parlano Brooks e Brown ha avuto diverse espressioni geostrategiche. Gli Stati Uniti, che hanno sempre sostenuto la particolarità di Hong Kong, hanno dovuto vedere Xi Jinping imporre all’ex colonia britannica una legge di sicurezza nazionale diretta a limitare le libertà. Solo cinque mesi dopo l’uscita del coronavirus da Wuhan, il regime comunista impone la restrizione dei diritti umani che ha favorito l’espansione del patogeno a tutto il mondo.

Fino all’inizio di quest’anno si poteva pensare che questa limitazione dei diritti fosse una questione locale: il denaro cinese, gli investimenti di Pechino, il suo sviluppo tecnologico che arrivava a tutto il mondo non aveveano nulla a che vedere con il comunismo nazionale di cui soffrivano solo i suoi cittadini. Da gennaio è diventato evidente che la limitazione delle libertà ha conseguenze globali: senza libertà non c’è fiducia, senza fiducia non c’è autorità. Il potere, preso in questo circolo vizioso, tarda a reagire (il ritardo a Wuhan è stato essenziale). Lungi dal porre in discussione questo modello, la Cina si presenta al mondo come la potenza salvatrice e sbatte Hong Kong in faccia agli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti si mostrano di nuovo vulnerabili o, peggio, irrilevanti. In Libia in questo momento è in atto uno scontro decisivo tra Turchia e Russia, mediante forze armate per procura, senza che l’Amministrazione Trump abbia qualcosa da dire. La stessa cosa succede in Siria, dove russi e turchi hanno alleati diversi dai Paesi del Golfo, e dall’Afghanistan il Presidente ha già detto di voler uscire quanto prima.

Brooks dice che la vulnerabilità porta un cambiamento di “significati, valori e narrazioni”. Tuttavia, la vulnerabilità è solo una soglia, l’interpretazione del limite è, come tutta l’esperienza umana, alla mercé della libertà, in un chiaroscuro: può essere semplicemente compresa come una sconfitta geostrategica o esistenziale. Slavoj Zizek, nel suo recente saggio Pandemia sostiene che l’epidemia attesta che “noi non siamo  importanti in modo profondo”. La vulnerabilità come conferma del nichilismo: “L’attuale epidemia è il risultato della pura contingenza (…) siamo una specie che non ha una importanza speciale”. Vulnerabili e limitati dentro una finitezza in cui niente è niente. O vulnerabili e limitati, perché l’infermità, la morte, l’impotenza aprono la porta a percepire se stessi come dono, come qualcuno che decide molte cose, ma che non ha deciso di essere nel mondo.

La vulnerabilità come opportunità per riconoscersi non come un uomo o una donna qualunque, ma come “questo uomo e questa donna”, con il loro modo unico di allacciarsi le scarpe, di preparare il caffè la mattina, di baciare, di soffrire. Come questo uomo e questa donna che accolgono se stessi ogni mattina al suono della sveglia, che si percepiscono in un tempo verbale passivo: già essendo, già chiamati, già messi nel mondo, già amati, con la possibilità di voler essere quello che già sono. Brown può parlare della “vulnerabilità come arma” perché dall’altra parte c’è un altro. Un sistema di libertà genera sicurezza non solo perché limita i diritti del potere o i diritti dell’altro, ma perché genera fiducia: coscienza di una vulnerabilità che è mutua dipendenza.