In Italia le scuole sono rimaste chiuse per il Covid-19 per un periodo più lungo che in qualsiasi altro paese: da marzo a giugno. Salvo quel che si è potuto fare di didattica a distanza: poche ore, a beneficio di metà degli studenti. Un deficit di preparazione difficilmente recuperabile, checché se ne dica. Scuole chiuse anche, come sempre, in luglio, agosto e prima metà di settembre. In totale sono sei mesi e mezzo. Tanti. E usati male, a cominciare dal vertice.



La ripresa di settembre andava progettata per tempo e non malamente improvvisata all’ultimo momento dopo un’estenuante zigzagare di annunci e contro annunci. A settembre ci sarà la solita migrazione ad altra sede di metà dei 700mila insegnanti, di cui 200mila precari (che fino all’ultimo, come sempre, non sapranno se e dove avranno un posto). In più il ministero dell’Istruzione è stato interamente occupato a emanare disposizioni in materia di sicurezza sanitaria, che non sarebbe propriamente neanche il suo mestiere. Di più: si sono ridotte al tema sicurezza la riflessione e il dibattito pubblico. E questa è una grave distorsione culturale da addebitare certamente ai politici ma forse non solo a loro. È un po’ come se avessimo girato tutti la testa da un’altra parte. Distanziamento fra le “rime buccali” e distanziamento dalla realtà.



Perché la pandemia ha accentuato le diseguaglianze e fatto emergere più vistosamente le povertà, che sono economiche e spesso anche formative. Per esempio, 40mila mamme hanno dovuto licenziarsi per non lasciare i figli in abbandono. Altro esempio: la didattica a distanza non funziona per chi non ha strumenti adeguati e risorse sufficienti. Non basta dotare i poveri di un device, tipo un tablet, primo perché di solito hanno già lo smartphone come tutti, secondo perché quello che costa – e non una volta sola – sono i giga; e pochi posseggono una stampante (che a sua volta costa poco all’acquisto, ma molto in cartucce di inchiostro). Chiaro che anche il diritto allo studio va rimodulato.



Più in generale la pandemia ha evidenziato in maniera nuova e potenzialmente incisiva problemi e carenze che nuovi non sono. Il fenomeno degli abbandoni scolastici, che ci vede tra quelli peggio messi in Europa, e che si riflette poi specialmente nel calo delle iscrizioni all’università: 5% di studenti in meno nell’ultimo decennio, a fronte del 15-20% in più di Francia e Germania. Lo scollamento scuola-lavoro, in un paese che ha il 37% di disoccupazione giovanile e 2,1 milioni di cosiddetti Neet (Neither in Employment nor in Education or Training, cioè  giovani di 15-29 anni che né studiano né cercano lavoro). La scarsità delle risorse dedicate all’istruzione (6,9% della spesa pubblica, la più bassa fra i paesi Ocse). Lo stanziamento post-Covid sarà di 1,4 miliardi, metà dell’importo inutilmente gettato (per l’ennesima volta) nel pozzo senza fondo di Alitalia.

Nessuno sembra prendersela troppo per questi brutti indicatori. Trattasi di pericolosa miopia. Ormai l’hanno capito anche i sassi che non c’è futuro senza investimento, e che l’investimento più importante è sul capitale umano, più ancora che sulle infrastrutture. Ce l’hanno insegnato anche i paesi emergenti del Sudest asiatico, che hanno fatto esattamente così. Ce lo insegna anche la nostra storia patria: nella crescita economica degli anni 50 e 60 del secolo scorso fu decisivo l’investimento dei padri, a costo di tirare la cinghia, sull’istruzione dei figli.

Oggi, ahimè, l’istruzione non è considerata un investimento ma una spesa. Del resto abbiamo un governo non degli investimenti ma della spesa, della gestione della spesa. Un investimento comporta ricerca dell’efficienza, misurazione dei risultati attesi, flessibilità rispetto alle varie situazioni; a un gestore della spesa va benissimo sottrarsi alle prove Invalsi, mantenere un esercito dei precari a vita, mantenere l’uguaglianza al ribasso di diritti acquisiti e bassi stipendi con mentalità buro-comunista (in senso culturale; potrebbero essere anche di destra) e statalista.

L’investimento sul capitale umano è la prima mossa a favore del bene comune. Non solo nel senso di preparare competenze generali e specifiche all’altezza del mercato del lavoro e delle esigenze di innovazione delle aziende e del sistema Paese. Ma ancor più profondamente nel senso di sostenere l’individuo nell’edificazione della propria personalità e della propria consistenza, attraverso un percorso di conoscenza e di autoconsapevolezza adeguatamente guidato in un contesto di libertà educativa.

 Al nocciolo, si tratta di investimento sulla persona. Perché, primo è un suo diritto e, secondo, è essa la risorsa insostituibile per ogni vera ripresa.