Così Thomas Piketty scrive nel suo recente volume “Capitale e ideologia”: “A tutti i livelli di sviluppo di una società, ci sono molti modi per strutturare un sistema economico, sociale e politico, per definire i rapporti di proprietà, per organizzare un regime fiscale e un sistema dell’istruzione, per gestire un problema di debito pubblico o privato, per regolare i rapporti fra le diverse comunità umane”.



Quello di Piketty è un invito ad andare oltre vecchi schemi di pensiero, a essere critici verso i modelli di sviluppo che hanno caratterizzato questi ultimi decenni. Ci sono molti modi per riorganizzare un sistema-Paese e, senza dubbio, questo è il momento per ripensare il nostro sistema. Il primo modo per farlo, però, è guardare più a fondo quali sono le sue caratteristiche e le sue necessità. Per questa ragione occorrerà comprendere come sostenere le piccole e medie imprese che costituiscono il tessuto economico e sociale italiano quasi per il 98 per cento.



Non si tratta di uno scenario omogeneo. Le Pmi italiane stanno seguendo diversi modelli e percorsi di sviluppo, dimostrando differente vitalità e capacità di rafforzarsi, anche in relazione ai propri territori di appartenenza oltre che, ovviamente, alle proprie specificità in termini di risorseconoscenze, competenze e abilità. Dopo la grande crisi del 2008, le Pmi “solide” sono cresciute in percentuale. Molte di esse collaborano alla realizzazione di prodotti spesso tecnologicamente evoluti, con un contenuto medio-alto di innovazione, con livelli qualitativi di prim’ordine, con tecnologie di processo avanzate. Eppure la quantità dei finanziamenti concessa alle Pmi è progressivamente diminuita.



Certamente non è estraneo il complesso di regole (dalle direttive bancarie del 1977 e del 1989 al progetto di Unione bancaria) che va sotto il nome di accordo di Basilea. Esso garantisce, dal lato delle banche, vantaggi non trascurabili: riduzione dei costi, dei rischi operativi e dei tassi di ingresso in sofferenza, l’adozione di sistemi di rating interno a fini del calcolo dei requisiti patrimoniali per il rischio di credito. La frattura tra mondo finanziario e imprese si è via via ampliata, lasciando senza sostegno quel mondo vivo delle Pmi. La situazione post Covid è ancora più drammatica.

Le perdite delle nostre aziende nel 2020 andranno a erodere i già ridotti patrimoni netti. Le aziende, per far fronte alle necessità finanziarie, saranno costrette a indebitarsi ulteriormente, ritrovandosi così totalmente incapaci di effettuare investimenti per la crescita e depauperando il loro valore di mercato. Il rischio è che i grandi gruppi internazionali facciano incetta delle realtà che hanno potenzialità in termini di know-how e capacità produttiva, lasciando al sistema Italia le aziende “decotte” che non hanno una prospettiva. Lo scenario drammatico potrebbe essere quello di vedere il nostro Paese relegato a un ruolo marginale dell’economia mondiale.

È stato annunciato un grande piano di investimento europeo, il NextGenerationEu, con l’obiettivo di rilanciare l’economia sostenibile del continente. Che cosa significa impostare un piano che non solo risolva i bisogni presenti ma guardi alle prospettive delle nuove generazioni? Significa fondamentalmente tornare a puntare sull’economia reale, sul lavoro, sulla creatività imprenditoriale e sociale.

Perché questi soldi non vadano persi in mille rivoli improduttivi e arrivino alle imprese, servono tuttavia strumenti finanziari diversi dagli attuali.

In questo contesto va vista con favore l’azione che la Cassa depositi e prestiti aveva avviato ancora prima della pandemia. Un’azione fondamentalmente in controtendenza rispetto a quella della finanza mainstream, con linee di credito aperte con maggior favore per le Pmi e per le imprese profit e non profit che operano nei territori.

La Cdp è una realtà antichissima, creata ancor prima dell’unità d’Italia, nel 1850, per finanziare gli enti pubblici territoriali e sostenere la spesa pubblica. Dal 2003, con la sua trasformazione in società per azioni, ha una peculiare compagine azionaria pubblico-privata, composta dal ministero dell’Economia e delle Finanze (82,77 per cento) e da diverse fondazioni bancarie (15,93 per cento). La Cdp raccoglie il risparmio a livello locale, tramite i buoni e i libretti postali, e lo reinveste sul territorio stesso. In quanto market unit riconosciuta a livello europeo, opera con le regole d’ingaggio proprie delle società private.

Gli azionisti di Cdp utilizzano, sebbene in modalità diverse, questo flusso di cassa per finalità di interesse collettivo: il Ministero delle finanze lo destina al bilancio dello Stato, le fondazioni bancarie lo impiegano per sostenere le loro attività nei territori.

Questa tipicità differenzia Cdp da altri attori che si occupano di investimenti sostenibili perché è direttamente connessa alla sua natura, alla sua missione e alle preferenze dei suoi azionisti. La sua operatività non può risultare in perdita, né può intervenire per statuto in realtà industriali in crisi senza prospettiva di un’adeguata redditività e crescita: ma può supportare le molte e valide che esistono, in virtù dei nuovi obiettivi che si è data.

Cdp ha intrapreso una prospettiva di rinforzo concreta, investendo in aziende leader che devono diventare polo aggregante, utilizzando le società di gestione del risparmio, optando per la vicinanza con i territori, aprendo 16 sedi e investendo in Pmi per favorirne lo sviluppo. Ciò ovviamente ha richiesto che Cdp adotti una logica industriale come volano dello sviluppo del Paese e che persegua tale logica sempre più, sollecitando il coinvolgimento delle aziende partner.

La nuova linea strategica intrapresa dal gruppo Cdp potrebbe favorire interventi di sviluppo e aggregazione che sono quanto mai urgenti nel contesto attuale. La speranza è che nel portare “a terra” queste iniziative non prevalgano le influenze di una politica volta a cercare consensi di breve periodo ma si guardi finalmente allo sviluppo del sistema economico italiano.