Qualche giorno fa è arrivata su Netflix la seconda stagione di The politician, una delle serie di successo dell’anno scorso, creata da Ryan Murphy. Sarà interessante vedere se i nuovi episodi riflettono il cambiamento imposto dal Covid-19. Le serie televisive, i grandi racconti di questo inizio di XXI secolo, sono il miglior test per individuare i cambiamenti culturali: in questo caso, il possibile mutamento causato dalla pandemia. Le serie sono normalmente più incisive delle riflessioni teoriche, alcune delle quali interessanti, altre semplici riciclaggi dei resti della precedente confusione. Resti con i quali si sono elaborate le “zuppe di Wuhan”, teorie e dissertazioni dove è difficile trovare qualcosa che già non si conosceva.
Nella prima stagione di The politician si racconta la storia di Payton, un giovane studente che vuole diventare Presidente degli Stati Uniti. Inizia la sua carriera politica nelle elezioni di istituto, poi vuole entrare ad Harvard perché è “la fabbrica” dei presidenti. La serie perde colpi, facendo le tipiche concessioni necessarie perché la storia possa essere considerata “corretta”. In ogni caso è importante che denunci una forma di far politica basata sul fake: i sentimenti e la ragione degli elettori sono costantemente manipolate da falsità che strumentalizzano la realtà.
Tuttavia, la cosa più interessante, almeno all’inizio, è che i personaggi sono molto attratti da ciò che non è reale: il fake è diventato la loro identità. Non distinguono le reazioni umane prefabbricate dagli interessi da quelle autentiche, sembrano perfino aver nostalgia di qualcosa di importante. In una delle scene più drammatiche della prima puntata si vede Payton durante l’intervista per entrare ad Harvard. Il professore che lo sta valutando gli chiede quando è stata l’ultima volta che ha pianto. Payton risponde facendo riferimento a un’occasione in cui tutti gli statunitensi piangono e il professore gli domanda: “Hai pianto perché si suppone che tu dovessi piangere o perché eri colpito”. E Payton risponde: “Ha importanza la differenza?”.
Difficilmente un personaggio post-pandemia avrebbe risposto con questo cinismo o incapacità di distinguere tra il pianto sincero e il pianto derivante da un dovere o per mantenere un’apparenza. O forse sì, il tempo lo dirà. Noi, comunque, abbiamo pianto come forse non abbiamo fatto nelle ultime due o tre generazioni. Abbiamo sentito che “non potevamo respirare”, abbiamo visto qualcosa di consistente muoversi dentro di noi, abbiamo distinto la realtà dai fake. Forse una prova di ciò è che, attualmente, certe strumentalizzazioni cercate dai radicalismi politici, sempre disposti a utilizzare a proprio favore la sensazione di vuoto, non sono cresciute in Europa.
L’ultimo lavoro di Krastev, con i sondaggi di Datapraxix e YouGov, indica che non vi è stato un incremento delle posizioni populiste e nazionaliste. Gli europei chiedono maggior collaborazione tra gli Stati dell’Unione. Gli spagnoli, di fatto, si allontanano dagli estremismi, il che coincide con altre indagini (GAD3) dove l’80% auspica un accordo.
In questo momento c’è qualcosa che sembra resistere a ciò che il sociologo spagnolo Víctor Pérez Díaz definisce la “distruzione del demos (popolo)” mediante la polarizzazione. Un meccanismo con cui il potere fa “di ognuna delle (supposte) metà dell’insieme, le sinistre e le destre, il proprio nemico (…)” verso il quale non trova spazio nessuna amicizia civile. Verso tale metà “si può solo avere diffidenza, ostilità, sospetto, disprezzo, timore, antipatia: sentimenti negativi”. Il meccanismo è più efficace nella misura in cui la società è disaggregata, facendo di ognuno ciò che si usa chiamare “un imprenditore di se stesso”. Si “favorisce la dispersione dei gruppi di interessi e di identità, rafforzando la tendenza di ogni segmento ad affermare se stesso in competizione con gli altri”. Si cerca di fare in modo che “ognuno si esprima con il proprio linguaggio e rifiuti il linguaggio comune, come modo di smascherare strategie di dominazione da parte degli altri”.
Quanto e come possiamo resistere a ciò che Pérez Díaz chiama “le oligarchie politiche, i demagoghi, alcune élite”? Il rapporto pubblicato recentemente dalla Caritas spagnola contiene un’interessante ipotesi di risposta. La ONG della Chiesa ha fatto una rapida valutazione della risposta alla pandemia nel suo rapporto Diritto Sociale e Diritto alla Assistenza. I suoi responsabili si mostrano sorpresi che si sia superata quella che definiscono “la fatica della compassione”. Fino allo scorso anno sembrava che le energie sociali della solidarietà si fossero esaurite. Si era chiesto un grande sforzo per molto tempo, dalla crisi del 2008, eppure, di fronte alla necessità è apparsa una nuova gratuità, in forma di donazioni di imprenditori e privati e con l’offerta del proprio tempo. È un’altra dimostrazione dell’esistenza di qualcosa di solido.
Gli autori del rapporto, però, annotano con gran realismo: “Si consolideranno le prove di solidarietà che si stanno manifestando in questo periodo? I valori comunitari acquisteranno un peso maggiore rispetto ai valori più individuali? È presto per dare una risposta a questi interrogativi”.
Si consoliderà la resistenza alla distruzione del demos? Tutto dipende dal fatto che la scintilla che ha risuscitato la coscienza dell’interdipendenza rimanga viva oltre la emergenza, sia sostenuta coscientemente e comunitariamente. La Caritas sottolinea: “La cittadinanza degli applausi e dei balconi sta provando a fare un passo avanti nel responsabilizzarsi collettivamente per ciò che ci accade”. Risponde in forma stabile chi sa distinguere se piange perché le cose lo colpiscono o perché deve piangere. Risponde, soprattutto a se stesso, chi non è solo.