La vera condizionalità cui l’Italia sarebbe soggetta in caso di accesso al Mes non è differente da quella che sarà posta alla base dal Recovery Fund: lo strumento di contrasto alla recessione-Covid, la cui definizione sarà al centro del Consiglio dei capi di Stato e di governo della Ue in programma nel fine settimana. È essenzialmente l’impegno a presentare piano precisi per l’impiego dei mezzi che Roma potrà richiamare dall’Europa ed è un vincolo solo formalmente esterno. L’Italia è in gran parte chiamata a deciderlo da se stessa, traguardando il proprio destino.

Si tratti di Mes o Recovery, di Next Generation o Green Deal, occorrono “piani credibili”, ha ribadito per tutti Carlo Cottarelli alla vigilia dell’ennesimo summit di Bruxelles. E non casualmente l’economista della Cattolica ha invitato a togliere criticità alla questione del mix fra sussidi a fondo perduto e linee di credito: quindi anche all’apparente contrapposizione fra Recovery – molto invocato dal governo Conte – e Mes, per ora guardato con diffidenza. Il nodo è certamente molto visibile sul terreno politico-mediatico nel round in corso fra Paesi “frugali” e “mediterranei” della Ue, sotto l’arbitrato del cancelliere tedesco Angela Merkel. Ma le questioni tecniche appaiono in fondo secondarie rispetto a un’assunzione di responsabilità politica di medio periodo cui l’esecutivo italiano è chiamato verso il proprio Paese non meno che verso i partner Ue.

Per paradosso potrebbe risultare più semplice – per il premier Giuseppe Conte – battagliare su clausole tecniche (come accadde alla Grecia nel 2015) piuttosto che concordare un percorso di stabilizzazione economico-finanziaria nell’orizzonte di almeno sette anni, cioè la prospettiva del bilancio Ue post Brexit nella quale gli aiuti post-Covid si ritroveranno inseriti. I 37 miliardi via Mes disponibili immediatamente per l’Italia a fini di consolidamento rapido del sistema sanitario non sono gratis, ma nella sostanza sono un’apertura di credito assai più politica che finanziaria. E sbaglia chi propone di rifiutarli in attesa che arrivino (ma non prima di sei mesi) i sostegni del Recovery: nominalmente a fondo perduto, nei fatti soggetti a un piano di rientro del debito pubblico italiano; entro parametri Ue prevedibilmente nuovi, ma non rivoluzionati.

A differenza di Atene cinque anni fa, un Paese come l’Italia si vede offerti dall’Europa aiuti importanti potendo decidere in misura non meno importante le regole del gioco. Alla Ue non interessa se i miliardi del Mes verranno destinati dall’Italia alla ricostruzione della rete di medicina territoriale al Nord o al potenziamento delle terapie intensive al Sud, piuttosto che al supporto alla ricerca universitaria o all’industria farmaceutica impegnate sul fronte dei vaccini o delle terapie Covid. Alla Ue importa che un utilizzo eccezionale del Fondo salva-Stati abbia impatti il più possibile “eccezionali”: che quei soldi vengano spesi il più in fretta possibile e il meglio possibile (facendo della sanità un drive della ripresa del sistema-Italia).

L’Europa non verrà a sindacare neppure il mix di politica industriale e infrastrutturale che Roma metterà a punto quando il Recovery Fund sarà operante. Industria 4.0 e/o rilancio delle infrastrutture a diretto supporto del turismo. Education di base (con un’occhio alla gestione intelligente dei flussi migratori) e sviluppo di una digitalizzazione capillare fra scuola, impresa, Pa. L’Europa (certamente la cancelliera tedesca Merkel) è interessata principalmente al risultato: le variabili macro italiane (Pil, occupazione, equilibri di finanza pubblica, investimenti) nella fuga in avanti dal Covid devono imboccare una strada di convergenza verso l’Ue. È una “condizionalità” che troppi governi italiani recenti hanno rifiutato di porre a se stessi: prima che la politica italiana finisse schiacciata fra tecnocrazia europea e populismi interni.

Rifiutare il Mes in attesa di un Recovery solo formalmente incondizionato vorrebbe dire perdere sovranità, non esercitare in modo politicamente responsabile la vera sovranità di cui ancora dispone un Paese fondatore dell’Ue.