In modo molto schematico, le reazioni all’imprevisto, se non al trauma, della pandemia, si può dire che siano state di due tipi. Nella prima parte del lockdown, quando il Covid-19 ha smesso di essere un nuovo strano morbo che minacciava una sperduta città cinese, sui balconi delle case, nei talk show televisivi, nei messaggi via internet dominava lo slogan rassicurante “Andrà tutto bene”. Poi si sono viste le immagini di camion militari che portavano via le bare da Bergamo, e il clima si è fatto più plumbeo. Molti non hanno retto di fronte a una realtà diventata sempre più imprevedibile ed è subentrata una paura che, in molti, dura ancora adesso, mentre in altri, è almeno in apparenza vinta da una forma di non curanza. Per il pericolo di un possibile nuovo contagio, tanti non vanno più nei bar e nei ristoranti, non viaggiano, non si incontrano, vorrebbero prolungare in modo indefinito il telelavoro.
Si è visto e si continuano a vedere reazioni, pubbliche e private, di tutti i tipi: dalla banalizzazione di problemi molto complessi, all’utilizzo della situazione per saldare alcuni conti politici e non solo. Mentre molte autorità piuttosto che comprensibilmente ammettere di non avere la soluzione in tasca fanno finta di saperla lunga promettendo miracoli che tutti sanno essere impossibili.
A questo corrisponde la pretesa di chi vorrebbe che gli interventi assistenziali, inevitabili e doverosi nel breve periodo, si trasformassero in eterni, perché ci deve essere sempre qualcuno che tiri fuori dalle situazioni difficili.
Eppure, c’è stato e c’è un altro tipo di reazione di fronte all’imprevisto. Lo abbiamo constatato durante le fasi peggiori dell’emergenza sanitaria, con la creazione dei posti di terapia intensiva, 7-8 volte quelli originari, con l’impegno professionale e umano di medici, infermieri, personale sanitario, volontari, insegnanti, solo per citare qualche categoria.
Tanta capacità di reagire all’imprevisto, rialzandosi, è oggi in mano a imprenditori e lavoratori perché rimettano in azione un Paese che è quasi fermo e appariva senza desiderio ben prima del Covid-19.
Qual è la differenza dunque tra la prima e seconda reazione? Sta in una parola pronunciata più volte da papa Francesco nei suoi interventi: speranza. La speranza è l’esperienza di un presente che rende certi di un futuro, secondo la definizione di don Luigi Giussani. Un presente che è un Dio incarnato che cammina ogni giorno con l’uomo affaticato e stanco per dargli conforto.
Speranza è anche una parola laica. E riguarda il legame vero con i propri cari, gli amici, la comunità, il gruppo sociale a cui si appartiene, il proprio popolo.
Quando si ama veramente, in modo gratuito, qualcuno o qualcosa, il cuore suggerisce misteriosamente che quel legame non verrà mai meno. Uno magari non sa perché, ma è certo che non è vano e inutile quel gesto verso un vecchio che muore solo nella corsia di un ospedale, l’impegno per istruire i propri studenti in condizioni precarie, lo sforzo per far vivere la propria impresa e garantire per la propria famiglia e a chi è intorno un po’ di benessere, l’impegno civico anche quando non dà potere, il servizio in un’opera di carità e volontariato verso i meno fortunati, il desiderio che la propria gente non cada nel baratro della povertà. E comincia a rischiare e, secondo il verso di Eugenio Montale, l’imprevisto diviene veramente la sola speranza, l’occasione per uscire dal torpore, dal rancore, dalla mancanza di desiderio in cui eravamo sazi e disperati prima del Covid-19.
L’occasione per riscoprire le risorse di un cuore più forte di ogni tragedia ci dice che le nostre azioni belle, virtuose, coraggiose, persino il nostro male e i nostri errori ammessi, hanno sempre un perché.