In epoca di “stati generali” e di tentativi di “reinvenzione”, il quattordicesimo Rapporto annuale della Fondazione per la Sussidiarietà ribadisce anzitutto un metodo culturale. Una democrazia europea come l’Italia si regge costantemente sulla condivisione di due impegni: partecipazione e conoscenza. È indispensabile focalizzare i problemi, stabilendo priorità e indicando “migliori pratiche” a beneficio de decisori politici. Studi accademici e teorie sono fondamentali, ma non meno delle testimonianze aggiornate di chi affronta i problemi nell’esperienza quotidiana. Un punto d’osservazione – com’è anche la visione-sussidiarietà – si rivela prezioso se non cela vincoli ideologici. Sciogliere i nodi “tutti, subito e per sempre” è impossibile; è invece un dovere cominciare, da subito, a cambiare le cose e non fermarsi.
Il Rapporto “Sussidiarietà e.. finanza sostenibile” – che viene presentato oggi in streaming dalla sede milanese della Fondazione Cariplo – è più corposo dei precedenti: ma il contesto in cui ha visto la luce – spiegano subito i curatori Maurizio Brugnoli, Luca Erzegovesi e Giorgio Vittadini – giustifica e impone una riflessione “senza precedenti”. L’emergenza-Covid – che il Rapporto ha affrontato in presa diretta – ha solo accelerato un vaglio politico-culturale iniziato con la grande crisi finanziaria del 2008 e ancora lontano dalla conclusione. Non è un caso che la prima citazione in assoluto del volume sia riservata a un articolo-manifesto pubblicato da Mario Draghi nei giorni di picco della pandemia. È stato suggerendo la sua tempestiva ricetta per la Ricostruzione nella Ue (espansione controllata dei debiti pubblici e utilizzo del sistema bancario della tradizione europea come leva strategica per trasmettere in tempo reale stimoli alle imprese e sostegni alle famiglie) che l’ex Presidente della Bce ha consapevolmente declinato l’odierno paradigma critico a supporto di una svolta della finanza in direzione di un’effettiva sostenibilità.
Il sistema finanziario deve superare la riduzione un mercato privatizzato, globalizzato, autoreferenziale ed egemone. Moneta e credito mantengono incomprimibili valenze pubbliche: sono veicoli di crescita socio-economica complessiva, non strumenti a disposizione esclusiva di manager e tecnocrati ultra-liberisti. La creazione di valore da parte della finanza non può essere a mero beneficio degli investitori e degli intermediari. Lo sviluppo non viene prodotto dalla finanza in sé: ma dai più ampi sistemi economici in cui essa convoglia e alloca risparmi e capitali. La funzione-obiettivo non può guardare a un autonomo profitto speculativo di breve termine: va invece riportata al contributo della finanza alle variabili macro reali (Pil, occupazione, investimenti in sviluppo, ecc.).
Il Rapporto si snoda come lunga e ricca esplorazione di questa frontiera in movimento. Vi si annotano con evidenza, ad esempio, le riprese di ruolo di soggetti come la Cassa Depositi e Prestiti in Italia o la Bei in Europa; e la “biodiversità” di azionisti-investitori come le Fondazioni italiane di origine bancaria. Non si tratta di “restaurazioni” ma del recupero innovativo di strutture e modalità che la finanza “a una dimensione” aveva voluto cancellare: in nome della pretesa superiorità del modello anglosassone su quelli propri dell’Europa continentale.
Al parametro elementare della remunerazione del capitale, il Rapporto contrappone categorie nuove e multidimensionali come “l’impact investing”: un framework in grado di tenere assieme un piano industriale di un’azienda tech piuttosto che un’iniziativa green in un vasto “giacimento” forestale. Ma nel Rapporto non manca un vasto cenno, tutt’altro che di circostanza, al lungo cammino del credito cooperativo: in Italia (Europa) la finanza sostenibile per definizione ed eccellenza. Da quella vena storica è nato il microcredito: cui è stato lasciato troppo poco tempo per sperimentarsi. Da quel modo di concepire la finanza nella società si è mossa la previdenza integrativa: forse il tentativo più compiuto – assieme all’housing sociale – di sussidiarietà in campo finanziario, lungo una traiettoria distinta dai semplici “pension fund” di mercato. “La finanza a impatto sociale – osserva il presidente della Fondazione Cariplo, Giovanni Fosti, in un contributo di discussione al Rapporto – può permettere agli imprenditori sociali di individuare risorse di capitale e competenze a supporto della loro attività sia attraverso strumenti di investimento diretto (cosiddetto ‘capitale paziente’), sia attraverso percorsi di ‘capacity bulding'”.
Lo sviluppo di “fintech” – cioè il manistream del settore – alimenta intanto speranze reali sul terreno della sostenibilità: intesa come accesso a basso costo e alto contenuto ai servizi finanziari. La dimensione digitale – se governata nei suoi rischi di deriva – può aumentare in misura sensibile le “pari opportunità”: soprattutto per giovani imprenditori meritevoli di fiducia. Le piattaforme di crowfunding e dei social business non sono più solo start-up, non sono più un “complemento”: sono invece il “drive” di un balzo in avanti di cui neppure l’ormai tradizionale finanza globalista ha considerato tutte le implicazioni di cambiamento.
Non certo da ultimo, osservano le conclusioni del Rapporto, “lo shock economico causato dalla pandemia, dunque, ha rafforzato la consapevolezza che la sostenibilità non è un greenwashing o la nuova invenzione della haute finance, ma piuttosto, come sostengono alcuni, ‘la pietra angolare su cui costruire un nuovo modello di sviluppo’. È emersa la necessità di spostare l’attenzione sulla dimensione sociale, oltre che su quella ambientale, e di porre in essere un patto pubblico-privato per la realizzazione di tale modello. Se una maggiore presenza pubblica nelle economie diventerà il tratto distintivo dei futuri modelli di crescita, saranno premiati i Paesi che saranno capaci di rendere più efficace la cooperazione pubblico-privato”.