L’Italia, la Francia, la Spagna, il Portogallo volevano che l’Ue stanziasse 750 miliardi per la Ricostruzione post-Covid. Hanno raggiunto l’obiettivo aggregato, anche se la quota di sussidi a fondo perduto è stata sensibilmente tagliata sotto i 400 miliardi. E soprattutto: 78 miliardi sono stati racimolati dal taglio/spostamento di fondi Ue originariamente previsti per le politiche di coesione e sviluppo “green” e digitale. L’operazione “Recovery Fund” in senso stretto – all’interno dell’assestamento del Multiannual Financial Framework  2021-2027 dell’Unione – è stata fissata in 672 miliardi: di cui 312 di “grants” e 360 di prestiti.  

L’Olanda e gli altri Paesi “frugali” del Nord Europa volevano a contrappeso forme di controllo politico sull’utilizzo del Recovery Fund: le hanno ottenute in misura non trascurabile. Il testo dell’accordo raggiunto ieri notte a Bruxelles non lascia spazio a dubbi. Sarà il Consiglio dei capi di Stato e di governo (lo stesso che ha votato l’accordo) a formalizzare “a maggioranza qualificata” le proposte della Commissione sulla ripartizione geografica e sull’impiego settoriale dei fondi. E ogni “pagella” stilata periodicamente dalla Commissione sul rispetto di “impegni e obiettivi” presentati da ciascun Paese beneficiario sarà regolarmente vistata dall’Ecofin: cioè dai 27 ministri delle Finanze. In casi eccezionali, infine, uno Stato-membro non convinto del percorso economico-finanziario di un Stato beneficiario potrà portare la questione al Consiglio dei capi di Stato e di Governo, bloccando nel frattempo l’erogazione degli aiuti.

La Germania di Angela Merkel – presidente di turno dell’Unione – ha ottenuto un successo essenzialmente politico arbitrando un complicato “pareggio” fra le due Europe che si sono misurate per quasi cento ore filate a Bruxelles. Fra le pieghe dell’intesa Berlino è sembrata riservare a sé un tendenziale allentamento delle scadenze nella strategia di decarbonizzazione industriale. Ma la traccia più marcata di un compromesso laborioso – che gli osservatori hanno intestato all’asse duraturo fra Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron – è stata lasciata da un paragrafo sollecitato da Ungheria e Polonia.

In esso, nei fatti, vengono congelate le crescenti pregiudiziali sollevate da almeno un biennio riguardo l’aderenza dell’odierna “democrazia materiale” a Varsavia e Budapest rispetto ai canoni europei. È un profilo squisitamente geopolitico, che – osservato dall’Italia – è tuttavia meritevole di un’attenzione specifica. Domenica sera, nel passaggio più critico del vertice, su tutti i media europei è improvvisamente comparsa un’istantanea: vi si potevano osservare a colloquio – in un salotto di Palais Charlemagne – il premier italiano Giuseppe Conte, quello ungherese Viktor Orbán e quello polacco Mateusz Moraviecki. Se l’Italia ha “vinto” oltre 200 miliardi fra sussidi e crediti nel braccio di ferro col premier olandese Mark Rutte è stato anche in virtù di questa foto. Fuori campo, dietro Conte e i due premier-leader del cosiddetto “gruppo di Visegrád”, c’erano Merkel e Macron: impegnati a tenere il più possibile unita l’Europa su ogni fronte, verso gli Usa di Trump, la Russia di Putin, la Cina di Xi, e via via verso la Turchia di Erdogan e gli altri player geopolitici di un pianeta “in cerca d’autore” dopo la pandemia.

What next, cos’accade ora per l’Italia? Il Governo ha due mesi di tempo per predisporre un “Italy Recovery Plan”; dovrà mettere nero su bianco un bilancio preventivo poliennale, per lo Stato (Def e leggi si stabilità) e per l’Azienda-Paese. Dovrà decidere come destinare sussidi e prestiti accordati dall’Europa: in investimenti infrastrutturali, in sgravi all’industria, in politiche straordinarie per sanità, scuola, famiglie. Dovrà anche valutare il ricorso al Mes: 37 miliardi di crediti immediatamente esigibili dal Fondo Salva-Stati per spese imposte dall’emergenza sanitaria.  

L’esecutivo italiano dovrà tassativamente fissare – come specifica l’accordo di Bruxelles – “milestones and targets”. A che ritmo l’Italia può/vuole far riprendere il Pil? Su quale percorso di rientro del debito pubblico è in grado di impegnarsi, orientativamente entro il 2027? Su quali livelli si assesterebbero i parametri di Maastricht per l’Italia in caso di loro ripristino fra due o tre anni? Non sono le uniche domande cui il Governo italiano dovrà rispondere: anzi, prevedibilmente “vari Governi in successione”, come ha notato Carlo Cottarelli. Come negli anni 90 l’Europa è per l’Italia un vincolo e un’opportunità: una sfida. Forse oggi più che allora.