Perfino un giornale liberista come il Financial Times ha avviato una campagna a favore di un nuovo “contratto sociale”: un appello non ideologico, dettato invece dall’esperienza del lockdown. Lavoratori come gli infermieri, i conducenti di mezzi pubblici o le cassiere dei supermarket si sono rivelati essenziali per la tenuta dei grandi sistemi-Paese investiti dalla pandemia.



Avrebbero potuto prendere a pretesto i loro bassi livelli retributivi – in molti casi simbolici della Grande Diseguaglianza aperta dal trentennio liberista, principalmente nelle economie avanzate – per “disertare”: per chiudersi in casa anche loro e rifiutarsi di garantire l’assistenza socio-sanitaria che ha salvato centinaia di migliaia di concittadini – in Gran Bretagna anche il Premier – e permesso a milioni di altri di continuare a studiare e lavorare in modalità smart (compresi i giornalisti di FT). Nella larga maggioranza dei casi, cittadini-lavoratori “lasciati indietro” dalla globalizzazione digitale hanno invece deciso di mettere in gioco a fini sostanzialmente collettivi la loro sicurezza, certamente non prevista dalla contrattazione del mercato del lavoro: che da decenni gioca sistematicamente contro di loro, giudicandoli “a valore aggiunto basso”, sempre più basso, tendenzialmente zero. 



Quanti veicoli pubblici e privati circolano già senza pilota? Quante checkout-line al supermercato sono già self-digital? Quanti reparti ospedalieri corrono già sulla frontiera della robotica e dell’intelligenza artificiale? La pandemia ha intanto riproposto in termini provocatori un leggendario paradigma dell’originaria economia politica di Adam Smith. In base a esso l’acqua ha un valore biologico massimo per la vita dell’uomo, ma – certamente nell’Europa del ‘700 come in quella odierna – ha un valore economico prossimo alla zero perché è disponibile in grande quantità in natura. Un diamante invece, è una risorsa di utilità molto bassa per l’esistenza e il lavoro dell’uomo, ma il mercato gli assegna un valore altissimo.



Durante l’emergenza-Covid milioni di cittadini-lavoratori sono improvvisamente riemersi come un “bene” sommamente prezioso per la sopravvivenza complessiva della società. La loro professionalità, da un giorno all’altro, si è ri-espansa nei valori civili negati dal tecno-economicismo ideologico: quello che invece preme implacabile sulla distribuzione del reddito e sulla stessa occupabilità di lavoratori bollati di “bassa produttività”. 

Un mondo già preoccupato di tassare i robot per distribuire “redditi di sussistenza” artificiali alle persone sbrigativamente escluse da ogni opportunità di lavoro, si è bruscamente riscoperto reale e soprattutto diseguale. In questo mondo contano, certamente, le poche migliaia di ricercatori che stanno mettendo a punto il vaccino: ma anche i milioni di operatori sanitari chiamati a portare quel vaccino in ogni angolo di un pianeta popolato da sette miliardi di umani. Contano i top manager del “Big Pharma”, che stanno investendo sul vaccino e organizzando la produzione di massa: ma anche gli addetti a quella produzione. E sembra impossibile eludere ancora una domanda: perché quei top manager guadagnano oggi tre o quattrocento volte l’addetto alla supply-chain? Sempre e solo in base a una valutazione di “creazione di valore” ridotta al trend di Borsa di un titolo?

In un mondo diseguale l’Italia non fa eccezione. È quanto evidenzia anche il recente Rapporto annuale dell’Istat, mai come in questa estate 2020 focalizzato su un drammatico tempo reale. Un intero capitolo, il terzo, è dedicato a “Mobilità sociale, diseguaglianze e lavoro”. I ricercatori dell’istituto guidato da Giancarlo Blangiardo non lasciano in ombra alcuna dimensione-gap: età, sesso, area di residenza.

“La pandemia scrivono – si è innestata su una situazione sociale caratterizzata da forti disuguaglianze, più ampie di quelle esistenti al momento della crisi del 2008-2009. La classe sociale di origine influisce ancora in misura rilevante sulle opportunità degli individui nonostante il livello di ereditarietà complessiva in Italia”,  seguendo, sia pure con ritardo, l’esperienza di molti altri paesi europei, si sia progressivamente ridotto nel volgere delle generazioni. Ma per la generazione più giovane tale evoluzione non ha, però, portato effetti positivi in quanto è stata accompagnata da un contemporaneo downgrading della loro collocazione e, dunque, da una diminuzione delle probabilità di ascesa sociale”.

Corrispondentemente “sul fronte del mercato del lavoro – veicolo fondamentale di opportunità e riduzione delle disparità sociali – i principali indicatori riferiti allo scorso anno mostrano un aumento delle diseguaglianze territoriali, generazionali e per titolo di studio rispetto al 2008. Seppure i dati rivelino una riduzione di quelle di genere, ciò è avvenuto anche per effetto del peggioramento della situazione occupazionale degli uomini. Le donne, insieme ai giovani e ai lavoratori del Mezzogiorno, restano più esposte a una bassa qualità del lavoro: ad essa sono associate retribuzioni inferiori alla media, elevati rischi di perdita del lavoro e alto livello di segregazione occupazionale”.

La sconfitta della pandemia e il contrasto ai suoi contraccolpi recessivi rappresentando sfide che l’umanità non conosceva dalla fine della Seconda guerra mondiale, prima della metà del secolo scorso. Ma l’uscita vera dall’emergenza socioeconomica è certamente un’enorme finestra d’opportunità per ricostruire un pianeta quasi rovesciato dalle diseguaglianze createsi a cavallo del millennio.