L’aborto in day hospital e il grido in lockdown

La filosofia “laica” torna a difendere l’aborto farmacologico senza ricovero oespedaliero. Ma “prima” dell’aborto viene un grido che non si può censurare

Confesso che quando due giorni fa, sabato mattina, ho visto che per Repubblica la notizia principale in prima era “Aborto, cade l’ultimo no”; e che per la filosofa Michela Marzano (il più delle altre volte acuta e stimolante) l’aborto farmacologico senza ricovero ospedaliero corona il diritto della donna all’autodeterminazione, mi sono sentito un po’ come lo scrittore Michel Houellebecq “appostato all’incrocio dello spazio e del tempo” ad osservare “l’avanzare del nulla”. E mi sono tuffato a rileggere Il brillìo degli occhi di Julián Carrón (dove avevo incontrato la citazione dello scrittore francese), dato che mi si era riaccesa dentro la stessa domanda – “che cosa ci strappa dal nulla?” – che è sottotitolo e tema di quel libro. Un nulla che in quel momento urtava le mie narici con l’afrore della minestra riscaldata, il sentore di argomenti e dialettiche vecchie di quarant’anni, che in quarant’anni non hanno mai convinto nessuno se non a confermarsi in quello che pensava già prima.

“Ci sono momenti in cui la realtà ci urta così potentemente – scrive Carrón a pag. 21 – che è molto difficile attutirne il colpo, eluderne o ignorarne la provocazione. Ciò che è accaduto ha ridestato – con il concorso della nostra libertà – la nostra attenzione, rimettendo in moto la nostra ragione, liberando le domande di senso che ne esprimono la natura”.

L’autore fa qui riferimento all’epidemia del coronavirus, causa di un sommovimento capace di scuoterci dal torpore e liberare le domande di senso della vita. Quale torpore? “Vivevamo in un’epoca che sembrava finita lì, in cui non poteva succedere più nulla”, ha sottolineato lo scrittore Maurizio Maggiani in una intervista a Tracce (n. 5/2020). E non a caso si intitolava La fine della storia il best seller con cui Francis Fukuyama nel 1992 celebrò il compimento globale della modernità borghese-capitalistica?

Io credo che la circostanza di trovarsi a decidere se interrompere o no la gravidanza sia per una donna una scossa tellurica in sé paragonabile a quella del coronavirus. Tutti, abortisti e anti, concordiamo che si tratta di una condizione drammatica, delicata, difficile, dolorosa. Ma perché? Perché il suo desiderio di realizzazione, di pienezza, di amore, di felicità non trova un senso adeguato a reggere il peso della vita, si affaccia sul nulla e grida. È un momento in cui “quanto più il nulla dilaga, tanto più le ferite e le attese della nostra umanità vengono a galla con tutta la loro potenza, non coperte dalle dialettiche culturali e dai progetti collettivi” (pp. 19-20).

Bisognerebbe che tornassimo a ragionare, tutti, e prima ancora a “sentire”, al livello di questo desiderio umano insopprimibile, di questo grido prorompente. Invece “le dialettiche culturali e i progetti collettivi” cercano sempre di coprirlo. La cultura prevalente si basa sull’assioma che non c’è nulla che si possa affermare come significato per cui valga la pena e come risposta all’altezza del desiderio, nulla se non il proprio diritto individuale (non è più il tempo delle masse popolari) a decidere. Siccome non è vero, siccome non funziona, e la sproporzione alla prova dei fatti è vistosa, autodeterminazione finisce per essere il nome della macchina (del potere) per abbassare l’asticella del desiderio e attutire il grido. Che almeno non si senta troppo in giro, questo grido. “E sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re”: dal libro del profeta Jannacci.

Così tutto ciò che favorisce l’autodeterminazione va attuato come diritto individuale prevalente su ogni altra considerazione. Dopo di che resta solo la banalità, asserzioni del tipo meglio “evitare ingorghi e attese inutili in ospedale”, che hanno lo spessore teoretico degli aforismi di Max Catalano, tipo “Meglio sposare una donna bella ricca e intelligente che una brutta povera e stupida” o “Ragazzi, è meglio essere promossi a giugno che bocciati a settembre”. Su tutto quel che c’è prima, il dramma, il desiderio, il nulla, il grido, niente domande. Lockdown.

Un grido di aiuto dice invece che l’uomo non trova la risposta in sé, tant’è che la cerca in un altro che magari non è sbagliato scrivere anche con la A maiuscola. La natura del grido è di rivolgersi non a sé stessi o al nulla ma a una presenza all’altezza del desiderio, un amore che dica come Gesù al cieco Bartimeo “che cosa vuoi che io faccia per te?”.

Prima di dire che è impossibile io andrei a vedere le carte. Se invece mettiamo il grido in lockdown, abbiamo già perso. Tutti, pro-life non esclusi.

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