L’avvento della pandemia da Covid-19 ha indubbiamente messo a nudo alcuni limiti del Sistema sanitario nazionale, che già si stava interrogando sulla revisione dei modelli organizzativi, anche a fronte del costante definanziamento degli ultimi 20 anni. La pandemia ha necessariamente accelerato la riflessione sulle innovazioni da portare nel sistema rendendo sempre più urgente l’attuazione di tali innovazioni così da rispondere efficacemente ai bisogni sanitari “vecchi e nuovi” dei cittadini e non trovarci nuovamente impreparati.



È possibile individuare alcune direttrici d’azione lungo le quali portare i cambiamenti al sistema, una sorta di “lezioni” apprese dalla pandemia, che riguardano da un lato l’ospedale, cosa debba rimanere e consolidarsi e cosa invece possa essere revisionato, e dall’altro i servizi territoriali, il loro ruolo per il cittadino e l’interfaccia con l’ospedale.



Dal punto di vista dell’assistenza ospedaliera, l’emergenza Covid-19 ha identificato l’accesso in Ospedale come momento critico per agire sulla riduzione del rischio, al fine di tutelare sia i pazienti che il personale sanitario. Questo è avvenuto in diverse realtà ospedaliere con l’istituzione di punti di triage all’ingresso degli Ospedali o delle Unità Operative, al fine di dilazionare gli accessi per evitare assembramenti e valutare lo stato di salute delle persone che avevano necessità di entrare. Nel caso in cui venissero individuati sintomi sospetti per Covid-19, il paziente doveva accedere attraverso un percorso dedicato e in caso di pazienti positivi che necessitassero di assistenza ospedaliera sono stati creati Reparti Covid-19, al fine di gestire al meglio questi pazienti mantenendo la sicurezza dei pazienti non infetti.



Queste modalità di triage, che laddove sono state implementate più precocemente hanno permesso il mantenimento della continuità di cura, possono rappresentare miglioramenti stabili per il sistema, incrementando appropriatezza e accessibilità alle cure. Possiamo fare ulteriori passi avanti in questo senso, potenziando l’informatizzazione di alcuni processi e snellire percorsi che determinano dispendio di tempo e risorse sia del paziente, sia del SSN.

Il tema dell’accesso alle strutture ospedaliere va a toccare l’altra dimensione dell’assistenza sanitaria, ovvero quella territoriale, che si è riconfermata come imprescindibilmente legata all’erogazione di un buon livello di assistenza per i cittadini.

È infatti necessario che si realizzi un forte potenziamento dei servizi territoriali, a garanzia di una presa in carico efficace dei problemi di salute a minore complessità assistenziale, in modalità tempestiva presso “Medicine di gruppo” dei Medici di Medicina Generale, o le “Case della Salute” aperte al pubblico il più possibile.

Dunque, fa parte dell’eredità post-Covid anche lo sforzo di ripensare le dinamiche di ricovero, andando a mantenere all’interno dei nosocomi i pazienti che necessitano di trattamenti ad alta intensità di cura (o di monitoraggio durante alcune fasi del percorso assistenziale) per collocarli, invece, all’esterno (presso strutture convenzionate, residenze socio sanitarie, case di cura) allorquando si debbano realizzare fasi preliminari o successive al ricovero, mantenendo una “prossimità” nelle attività di preparazione e di controllo/follow up, fino alla vera e propria dimissione che consenta il ritorno del paziente al suo domicilio.

La delocalizzazione della attività di cura è un’altra lezione appresa dalla pandemia, che deve sostanziarsi con la presa di coscienza da parte del management ospedaliero di farsi promotore di un cambiamento organizzativo che si fondi su un approccio integrato, ad ampio spettro, per ricercare quel “best setting model” che sia capace di assicurare il raggiungimento di tre fondamentali obiettivi: l’identificazione del luogo di cura più appropriato; la costituzione di “microreti” e l’engagement del paziente.

Il “best setting model” viene individuato attraverso la strutturazione delle informazioni relative alle attività da svolgere e ai setting assistenziali disponibili. La descrizione di questi due elementi, oltre che la definizione di alcune regole (correlate a vincoli e risorse) consente l’identificazione del luogo di erogazione più appropriato nel quale possa essere svolta l’attività sanitaria al massimo livello di qualità possibile. In ragione di ciò, appare evidente come la “delocalizzazione” non debba intendersi come il puro e semplice trasferimento di attività dall’ospedale ai servizi territoriali (una sorta di “appalto”), bensì come la creazione di percorsi assistenziali integrati nei quali tutti i soggetti coinvolti operano in una logica di “Rete” e interagiscono per assicurare la migliore risposta possibile riducendo al minimo il disagio per il paziente. Esempi di attività sanitarie “delocalizzabili” potrebbero essere i prelievi ematici, gli accertamenti diagnostici di “routine”, le piccole medicazioni, la somministrazione di terapie ricorrenti, le visite di follow up, ecc.; il tutto sotto l’occhio vigile e competente delle Unità Operative e dei Dipartimenti ospedalieri.

Un’ulteriore proposta di capillarizzazione può riguardare anche la gestione decentrata, tramite le farmacie territoriali, delle “terapie orali” relative anche a patologie di particolare gravità. Il farmacista, inoltre, potrebbe avere il compito di valutare l’aderenza terapeutica, gli effetti collaterali, il gradimento o meno da parte del paziente, attivando le conseguenti segnalazioni al MMG (e allo specialista ospedaliero) di riferimento.

Nell'”assistenza di prossimità” è necessario coinvolgere, in qualità di fruitori, anche il paziente stesso. Ciò richiede, non solo importanti azioni di coordinamento fra i diversi protagonisti del “setting” assistenziale, ma anche interventi concreti affinché i cittadini/pazienti siano aiutati a responsabilizzarsi per divenire co-autori nella definizione degli obiettivi prioritari del proprio percorso assistenziale. In relazione a ciò, il loro coinvolgimento attivo appare fondamentale, non solo perché produce miglioramenti nel “self management”, ma anche perché consente (come sostenuto da Sir Muir Gray) di rendere multiprospettica la valutazione dei risultati di ogni intervento sanitario, il cui valore viene considerato, certamente, in termini allocativi (rispetto alle risorse impiegate) e tecnici (qualità e sicurezza), ma anche in rapporto agli esiti che riesce a ottenere influendo sulle condizioni cliniche del paziente e rispondendo alla gerarchia dei suoi valori personali.

Tra le lezioni impartite dalla pandemia, anche quella sulla ricerca merita una menzione: avviare nuove sperimentazioni inerenti nuove strategie di prevenzione e trattamento era più che mai urgente, ma questa urgenza rischiava di affondare nei percorsi spesso tortuosi della ricerca clinica, che invece ha saputo acquisire nuove modalità di esecuzione in termini di semplificazione delle procedure (approvazione da parte di un unico Comitato Etico, acquisizione di consenso informato in modalità remota), rapidità nell’avvio ed essenzialità nelle metodologie, mantenendo sempre il rigore nelle valutazioni. Queste nuove modalità messe in pratica in una fase di emergenza sarebbe bene fossero consolidate e mantenute per il futuro rendendo sempre più accessibili ai pazienti le opportunità di ricerca di nuovi trattamenti e percorsi di cura.