A proposito di stupore. Operai in lotta per la dignità del lavoro in un Paese comunista. Operai che di là dai cancelli degli immensi cantieri navali Lenin di Danzica vedemmo inginocchiati a pregare e confessarsi. Operai che occuparono e non cedettero sulle richieste, in 21 punti, di diritti e libertà. Stupefacente agosto di quarant’anni fa che lasciò di stucco il mondo: mai vista una cosa così, nemmeno mai immaginata. I vecchi se li ricordano bene lo stupore e l’ammirazione che provammo, ma sempre meglio rinfrescarsi la memoria. I giovani non ne sanno nulla, ma queste cose è meglio fargliele sapere. Nasceva Solidarnosc, movimento sindacale di dieci milioni di iscritti, un leader elettricista che portava due grandi baffi e una piccola immagine della Madonna di Czestochowa sul bavero; movimento intriso di fede pubblicamente testimoniata senza confessionalismi e in pieno coinvolgimento con le componenti laiche, libero da gabbie ideologiche, non violento (“mai rotto un vetro”). Miccia a sua insaputa dell’inizio della fine dell’impero sovietico. A sua insaputa perché non aveva neanche lontanamente di mira l’abbattimento del regime. Nelle stesse settimane debuttava a Rimini la prima edizione del Meeting di Rimini per l’amicizia tra i popoli, da subito così attento all’Est europeo, ai diritti dell’uomo, all’incontro e al dialogo. E a Solidarnosc.

Quanti dalla meraviglia si lasciarono colpire e interrogare, non rimasero sordi al sublime. Avvenne quel che indica il titolo del Meeting di quest’anno. Il sublime era qualcosa di accaduto prima: la visita del papa Giovanni Paolo II nella sua Polonia, che ravvivò fede, speranza e… solidarietà nel popolo convocato attorno all’avvenimento di Cristo. A Nowa Huta, la Sesto San Giovanni polacca, il Papa disse: “Non si può separare Cristo dal lavoro umano… Il cristianesimo e la Chiesa non hanno paura del mondo del lavoro. Il Papa non ha paura degli uomini del lavoro. È uscito di mezzo a loro. È uscito dalle cave di pietra di Zakrowek, dalle caldaie di Solvay in Borek Falecki, poi da Nowa Huta (…) Attraverso le proprie esperienze il Papa ha imparato nuovamente il Vangelo. Si è accorto e si è convinto di quanto profondamente nel Vangelo sia incisa la problematica contemporanea del lavoro umano. Come sia impossibile risolverla fino in fondo senza il Vangelo. Infatti, la problematica contemporanea del lavoro umano (soltanto contemporanea, del resto?), in ultima analisi, non si riduce né alla tecnica, e neanche all’economia, ma ad una categoria fondamentale: e cioè alla categoria della dignità del lavoro, cioè della dignità dell’uomo”. Che è una categoria umanistica, aggiunse, una categoria cristiana.

“Dalla drammatica bellezza di quella lotta a noi interessa imparare”, si leggeva in un volantino di Cl del settembre di quell’anno. Si generò un laboratorio permanente di confronto e di testimonianza di un nuovo modo di essere uomini del lavoro. Di una concezione del lavoro non subalterna alle visioni economicistiche del capitalismo e del marxismo, autorevolmente esposta nell’enciclica Laborem Exercens del 1981, e giocata in comune con i leader di Solidarnosc e, anche con i leader della Clat, Central latino-americana de los trabajadores, guidata da grandi figure cristiane come Emilio Maspero e Louis Enrique Marius, galvanizzate anch’esse dalla visione del lavoro del Papa che consentiva di liberarsi dalla subalternità alla teologia della liberazione.

Si cominciò a vedere allora, e lo si vede adesso, che lasciarsi accendere dallo stupore e dalla voglia di ascoltare il richiamo del sublime, cioè della bellezza e della verità per la vita, produce cose buone per l’uomo. Si innescarono in Italia, in parte sulla scia di quegli eventi e di quella riflessione, processi nuovi. Sia all’esterno del sindacato, come i Centri di Solidarietà, sia dentro, in particolare nella Cisl, e in certi giuslavoristi, che iniziarono a guardare il mercato dell’impiego, specie per i giovani, a partire dalla considerazione della persona come soggetto dinamico di un percorso di lavoro e non come pura forza lavoro applicata a un posto fisso che non sarebbe esistito più, da sfruttare per fare profitti o per fare la lotta di classe. Una rivoluzione, che ad alcune figure (da Tarantelli a Biagi) è costata la vita.

Trovano là la loro lontana origine anche presenze attive oggi nel sindacato, convinte che solo una vita nuova, una compagnia umana capace di condivisione tra lavoratori può reggere il tentativo di affrontare problemi e bisogni inediti rispetto ai quali i vecchi schemi sono ferrovecchio.

Sono punti di riferimento (e di speranza) di fronte alle problematiche poste dalla nuova organizzazione del lavoro, che tende a collocare alcuni nell’alienazione più o meno smart da performance, gli altri nella palude della precarietà e degli scarti. Più ci si stupisce e se ne tiene conto, meglio è per essere tra “quelli che ripartono”.