Si è da poco concluso il Meeting di Rimini, il tradizionale appuntamento culturale di fine estate in Italia. È stata probabilmente l’edizione più strana da quando, quarant’anni fa, è cominciata questa iniziativa. Non c’era l’abituale gran numero di visitatori e, di fatto, è stato uno dei primi convegni che si sono tenuti nel Paese dall’inizio della pandemia del Covid. Una miscela di on line e on life: nel vecchio Palazzo dei Congressi di Rimini, mille persone al giorno presenti in carne e ossa, e molte altre decine di migliaia sul web. La digitalizzazione ha favorito un’intensa internazionalizzazione.

Il mondo post Covid e il mondo durante il Covid sono stati molto presenti, non solo tra i politici, gli imprenditori e gli scienziati che sono intervenuti. Forse l’apporto più originale del Meeting 2020 è stato l’interrogarsi sulla possibilità di superare il nichilismo che è aumentato con la pandemia e che non si può vincere né con le mascherine, né con il distanziamento sociale. Le parole che segnano la fine di quest’estate sono state ricostruzione e nuovo inizio. Tuttavia, la prima ondata prolungata del virus, o la seconda che è già presente, impediscono di rendere concreto il gioco di parole utilizzato in Spagna, “nuova normalità”, che appare sempre più come un sogno. Pensavamo che a questo punto avremmo parlato dei brutti mesi che ci ha portato il virus coniugando i verbi al passato, ma il virus si è installato ostinatamente nel presente e mette insistentemente in discussione qualsiasi forma di ottimismo. Il virus non se ne va, non c’è in vista un miglioramento certo. Quasi 23 milioni di contagiati nel mondo, quasi 800.000 morti ufficiali e le previsioni di recupero sono del tutto vaghe.

Come ha evidenziato lo psichiatra Umberto Galimberti, apparteniamo a una cultura nella quale suonava male dare per scontata la speranza: tutto doveva necessariamente progredire. I giovani sono coloro che più rapidamente si sono resi conto che non c’è niente di necessariamente migliore nel guardare al futuro. Per questo il loro presente, il nostro presente, soccombe al nulla. Non c’è scampo e limitarsi a sperare che tutto si risolva, come ha detto Julián Carrón, il Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, fa sì che le giornate diventino più insopportabili.

Il Meeting di Rimini, benché sostenuto da persone che fanno parte di Comunione e Liberazione, non è solito ospitare un intervento del suo massimo responsabile: negli ultimi quattro decenni, si contano sulle dita di una mano le occasioni in cui Giussani e Carrón sono intervenuti. Il sacerdote spagnolo in questa occasione ha portato il suo contributo in un vivace dialogo con il Presidente del Meeting, Bernhard Scholz, sulla questione più scottante del momento: cosa può sostenere la speranza.

Non si è trattato di un intervento facilmente archiviabile nel quaderno dei “consigli spirituali per un tempo burrascoso”. L’esperienza e le domande formulate da Carrón, infatti, hanno il valore di una ipotesi per quel dialogo sociale che spesso ci manca: perché si può sperare in un futuro migliore? Senza rispondere seriamente a questo interrogativo è difficile continuare a lottare contro il virus, rimettendo tutto al momento in cui Astrazeneca o Moderna ci annunceranno di avere disponibile il vaccino (con efficacia necessariamente limitata). È quasi impossibile impegnarsi in una ricostruzione dopo un disastro economico che abbiamo difficoltà a immaginare. “La società non può accettare un mondo senza speranza”, aveva affermato Mario Draghi in apertura del Meeting. 

Cosa permette di sperare? Non è cosa da poco che l’incontro di Rimini abbia formulato domande che non si riferiscono alla vita dopo la morte, ma al nostro modo di rapportarci alla realtà. Ora che, all’improvviso, abbiamo incominciato a parlare di cose di cui non parlavamo mai, sarebbe interessante ascoltare le risposte che tutti ci diamo, soprattutto quelle non prefabbricate, quelle che obbediscono alla grammatica dei fatti.

Carrón, per rispondere, ha voluto partire dal presente, dal positivo che già stava accadendo: il Meeting stesso. È la stessa indicazione metodologica che aveva lanciato ore prima lo psichiatra Eugenio Borgna utilizzando parole di Sant’Agostino: la speranza è “memoria del futuro”. Tutto dipende dal punto di appoggio che c’è nel presente, da ciò che possiamo cogliere oggi, ora, per restare in piedi. Il mondo intero da marzo è sottoposto a un test di resistenza che ha rivelato fino a che punto le strutture sanitarie, economiche e, soprattutto, culturali e di opinione erano costruite su un terreno che si è dimostrato insicuro. Cosa mi permette di essere me stesso in circostanze come queste? Cosa abbiamo imparato durante la quarantena? La quarantena ha messo le nostre certezze davanti al tribunale esigente della vita, davanti al tribunale inappellabile del presente. Come ha detto Carrón, la speranza è possibile quando c’è qualcosa nel presente che ci fa guardare in modo diverso al futuro.

L’invito a un’indagine sincera sulle ragioni del presente che permettono di avere una memoria speranzosa del futuro non è privatizzabile. Non è privatizzabile come finora erano privatizzabili le domande di significato. Ora il significato è diventato la domanda pubblica per eccellenza.

Mario Draghi ha sottolineato che “la partecipazione alla società del futuro richiederà ai giovani di oggi ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento”. Ma com’è possibile educare a questa capacità di adattamento se si vive con la paura nel sangue? Una paura nel sangue che secondo Carrón viene messa da genitori ed educatori pervasi dal timore del futuro, dal timore della libertà. Si confida nel futuro, si ama e si educa nella libertà solamente in virtù di qualcosa, di qualcuno, presente.