Dopo le vaste reazioni positive a caldo, il discorso pronunciato da Mario Draghi nel momento inaugurale del Meeting di Rimini 2020 è stato subito oggetto di riletture più ragionate. Fra queste è spiccata quella del presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che otto giorni fa ha voluto essere fisicamente presente al Palacongressi riminese.
Il leader degli industriali italiani ha preso spunto dalle parole del former president della Bce per una riapertura indubbiamente partisan del confronto con il governo e i sindacati sulla politica economica. Un’uscita non priva di toni polemici su ritardi e rigidità nella “fase 3”: sui rischi che l’emergenza economica post-Covid possa innescare una “crisi irreversibile” nell’Azienda-Italia. Fin dalla dichiarazione strategica – “occorre un patto per l’Italia” – Bonomi è parso tuttavia voler far risuonare anzitutto le note di impegno civile – di speranza – che hanno contraddistinto il messaggio di Draghi a Rimini. E di esso il numero uno di 100mila imprenditori manifatturieri italiani è sembrato far proprie anche importanti indicazioni di contenuto.
L’ipotesi di patto in tre punti messa sul tavolo da Confindustria prevede: un piano di riforme strutturali, sfruttando i fondi Ue; un piano di politica industriale di mercato, “rinunciando a ogni disegno statalista”; e quindi un’operazione fiducia sulle imprese, cioè la certezza di avere come interlocutrice una politica “che non coltivi ideologie ostili all’imprese”.
Tutti e tre i punti sembrano riconnettersi direttamente ai passaggi più forti di un discorso che Draghi ha certamente pensato in orizzonte europeo. La distinzione finanziaria fra “debito buono” e “debito cattivo” – candidata ad avere la stessa fortuna globale dell’ormai celebre whatever it takes – si è sovrapposta a quella economica fra “investimenti” e “sussidi”. E quest’ultima è stata proiettata da Draghi in un’ambiziosa prospettiva di civiltà in progresso quando ha specificato di considerare prioritari gli investimenti “in capitale umano”, per assicurare un futuro “ai più giovani”.
Ora non sembra opinabile che Bonomi faccia eco a Draghi quando sollecita un utilizzo “buono” degli aiuti straordinari Ue (che saranno “debito” in parte per l’Italia, in parte per la stessa Ue) per “investimenti strutturali”. E paiono esservi pochi dubbi anche che le “politiche industriali di mercato” chieste da Confindustria possano essere facilmente simboleggiate dal Piano Industria 4.0: un investimento strutturale e selettivo sulla capacità del settore manifatturiero italiano di acquisire più competitività sulle vie della digitalizzazione. Un’accelerazione all-win, che già in una prima fase è riuscita a coinvolgere con successo imprese, università e centri di ricerca che in Italia posseggono e producono già conoscenza; imprese che stanno ancora rincorrendo la digitalizzazione; uno Stato che punta le risorse del suo bilancio direttamente sulle imprese di un’economia di mercato del G7 quale è l’Italia.
Una democrazia di mercato lo è da sempre l’Italia repubblicana: ma in particolare da quando Draghi ne ha pilotato la definitiva de-statalizzazione. Un passaggio epocale su cui il banchiere centrale a Rimini non ha avuto bisogno di tornare: aveva chiarito nel già celebre intervento di fine marzo sul Financial Times che il temporaneo aumento dell’indebitamento degli Stati avrà come unico fine la sopravvivenza di società libere popolate di famiglie e imprese; non il ritorno di alcun Leviatano.
La firma del leader degli industriali è la prima effettiva apposta sotto il “manifesto Draghi”. In democrazia non è affatto obbligatorio che ne seguano altre. Ma sarà certamente utile al Paese che se altri – al tavolo governo-parti sociali – non condivideranno il discorso di Rimini, lo dicessero: ne spiegassero trasparentemente le ragioni e formulassero contro-proposte.