Il nobile esercizio della decisione deve essere svolto attraverso una sintesi tra visione e metodo. La cornice (la visione appunto) del contesto di cui stiamo parlando (il sistema sanitario lombardo) è chiara. Se la competizione orizzontale tra pubblico e privato si muove all’interno del postulato del SSN e se è vista come strumento per attuare le garanzie sancite dall’art. 32 della nostra Costituzione, è qui immaginata come un valore. Ma la sola visione non è garanzia di successo. Per disegnare la rotta è indispensabile riuscire a coniugare la spinta della visione con il metodo, ovvero mettere il rigore scientifico al servizio del sistema. Tre osservazioni ci aiuteranno inquadrare cosa intendiamo per metodo.
Prima, la pandemia da CoV-2 ha messo in evidenza la difficoltà di scelte in un contesto di grande incertezza e poche conoscenze. Ci piace citare John Locke (…siamo costretti a scegliere non nel chiaro meriggio della certezza, ma nel crepuscolo delle probabilità) per stressare quanto in generale (non solo durante il recente shock epidemico) l’incertezza governi il processo decisionale. E allora a cosa serve il rigore scientifico se tutto è aleatorio? Evitare di percorrere sentieri pericolosi, basati su opinioni personali, nel più nobile dei casi sulla convinzione che la lucida visione sia sufficiente per governare il sistema. La stratificazione della popolazione per individuare chi è a maggior rischio di contagio e di sviluppare manifestazioni cliniche severe dello stesso, la previsione tempestiva del verificarsi di focolai epidemici, l’armonizzazione degli interventi di monitoraggio dei pazienti dimessi per Covid, la pianificazione degli interventi per garantire il ripristino dei Livelli Essenziali di Assistenza ai pazienti affetti da malattie croniche drammaticamente ridotti durante lo shock epidemico, sono alcuni dei problemi che il decisore si trova ad affrontare. Lo sta facendo con lucida intelligenza, grande impegno e molta professionalità.
Ciò che manca è l’organico tentativo di rispondere alla domanda: “è utile, sicuro e sostenibile quello che sto facendo? in quale direzione il progetto complessivo può migliorare?”. A queste domande la comunità scientifica sarebbe chiamata a rispondere se tra scelta e metodo ci fosse un sussidiario rapporto armonioso.
La seconda più generale osservazione riguarda la capacità del sistema di rispondere all’evoluzione del quadro epidemiologico, sociale ed economico. L’invecchiamento della popolazione, e il conseguente carico di malattie croniche, la necessità di governare i processi di presa in carico e di integrazione dei servizi e di ridisegnare i sistemi di rimborso dei percorsi di cura, nonché le nuove sfide lanciate dalla disponibilità di cure innovative “potenzialmente” efficaci, con incerta sicurezza, ma costi certamente elevati, erano già argomenti di dibattito ancor prima dell’attuale emergenza. Ma al dibattito deve affiancarsi un metodo che supporti il decisore nelle scelte e lo aiuti a mettere a sistema un processo capace di monitorare e valutare i processi di erogazione delle cure e dei sistemi organizzativi che li sostengono. In altri termini auspichiamo che il sistema venga messo nelle condizioni di misurare se sta procedendo secondo la direzione disegnata (monitoraggio). Ma abbiamo anche bisogno di misurare gli esiti generati dai percorsi sperimentati dai pazienti, di identificare le caratteristiche dei singoli erogatori, e l’integrazione tra gli stessi, in grado di ottimizzare sicurezza, efficacia e costi e di sperimentare sistemi di rimborso dei percorsi assistenziali che prescindano dalle singole prestazioni. In sintesi, abbiamo bisogno di mettere a sistema un processo di valutazione che, sull’esperienza passata dei pazienti in termini di cure ricevute ed esiti, sia in grado di produrre evidenze “credibili” sul modo migliore per trattare i pazienti nel futuro. Per andare in questa direzione non servono soluzioni sofisticate, è semplicemente necessario disporre di dati tratti dal mondo reale e di metodi robusti in grado di estrarne in contenuto informativo.
La terza e ultima osservazione, affronta una domanda che non possiamo ignorare: chi valuta il sistema? Per quanto bizzarro, l’atteggiamento che porta intere categorie e organizzazioni a rivendicare il “diritto” a dettare regole e metodi per la valutazione del loro operato, è diffuso. La cultura scientifico-valutativa meriterebbe maggiore attenzione nel nostro paese. La valutazione non è un esercizio di democrazia rappresentativa, dove vince (e detta le regole) chi ha più consenso. La valutazione vince (serve) se è in grado di cogliere in cosa dobbiamo cambiare per migliorare. Per andare in questa direzione occorre pensare a un organismo di valutazione grado di garantire rigore e terzietà. In tutto il mondo civile l’Accademia fornisce un contributo sussidiario al sistema sanitario per svolgere questa funzione.