Carlo Chiodi, 50 anni, bergamasco, di professione autotrasportatore, nella pandemia ha perso nell’arco di pochi giorni sia il padre che la madre. Un dolore di cui non riusciva a darsi pace, al punto di prendere carta e penna e chiedere un aiuto, lui credente, al Papa. “Mosso dal mio amore verso i miei genitori e per onorare la loro memoria, ho sottoposto la mia esperienza alla persona che nel silenzio del vuoto di piazza San Pietro dello scorso 27 marzo, ha veicolato con più forza la sofferenza che tutta l’umanità stava provando”, ha spiegato. Qualche tempo dopo nella sua cassetta della posta il signor Carlo ha trovato una busta che arrivava dal Vaticano. Non era semplicemente una risposta alle sue parole, ma un invito: un invito (allargato alla moglie e ai due figli) ad andare a incontrare il papa a Roma e parlare direttamente con lui di quanto ha sperimentato e sofferto.

Non c’era recriminazione nelle sue parole, non c’era lamento rispetto ad un destino così amaro. C’era qualcos’altro e papa Francesco lo ha colto in pieno. C’era quella domanda così umana che tutti ci facciamo quando una tragedia ci coinvolge: “perché, Signore?”. Quella domanda che può anche annichilire, troppo spesso trova risposte che fanno leva su un sentimentalismo religioso e su una fede ridotta a formula un po’ meccanica. Questa volta, per una volta, invece il signor Carlo e noi ci siamo trovati davanti ad un film diverso, e per una volta sinceramente credibile. Innanzitutto il papa non ha voluto rispondere alla lettera del signor Chiodi con delle semplici parole (che sarebbero state parole comunque di peso, visto da chi provenivano), ma proponendo un incontro.

Non ha risposto a quella domanda così angosciosa con un discorso ma con una presenza, la sua presenza: alle parole ha anteposto un abbraccio, come dimostra anche l’informalità con cui l’incontro è avvenuto. Naturalmente il papa voleva fare intendere che si trattava di un abbraccio per interposta persona e che non solo lui ma il Signore stesso si univa nell’abbraccio al signor Carlo.

Naturalmente Francesco ha anche parlato e ragionato con quell’uomo segnato da una doppia perdita. Ma anche con le parole ha evitato le belle scorciatoie consolatorie. Si è attenuto alla realtà: una realtà che inevitabilmente, come lui stesso ha ammesso, fa scattare nel cuore una profonda collera per la sproporzione di quanto sofferto. Ebbene quell’arrabbiarsi, ha detto loro il Papa, è una forma di preghiera. È un rivolgersi al Signore non in astratto ma nella concretezza di una relazione vera e umana; un rivolgersi al Signore che viene riconosciuto nell’evidenza della sua presenza reale, proprio nel momento in cui, con sincerità, gli si chiede conto di quanto patito. Quanto alla risposta a quel “perché”, il papa stesso ha confessato di sentirsi fragile e di pregare “ogni giorno Dio per comprendere il senso di questa sofferenza”.

Il bilancio più bello di questo incontro infine lo ha fatto con molta semplicità lo stesso signor Carlo. “Durante l’udienza tremavamo”, ha confessato. Non tremavano perché messi di fronte a delle verità rivelate, ma semplicemente “per l’umanità del papa, che ci ha dedicato un momento di ascolto indimenticabile”. Appunto, non discorsi ma un “a tu per tu”.