Da quando ha concluso il suo mandato di otto anni alla presidenza della Bce, Mario Draghi non ha mai parlato in pubblico. Ha firmato un solo scritto: la sera del 25 marzo scorso, sul Financial Times.
L’emergenza-Covid era al suo picco in Europa e i capi di Stato e di governo dell’Ue si sarebbero ritrovati di lì a poche ore per tentare prime risposte. Draghi avvertì che andava controbattuto da subito non solo il rischio sanitario, ma soprattutto quello dei pesanti ripercussioni economiche che già si profilavano. Chiese fin da allora all’Europa il coraggio politico di uscire dalla gabbia tecnocratica di Maastricht. Suggerì strategie energiche di stimolo finanziario alle imprese – oltreché di necessario sostegno alle famiglie – per evitare una “catastrofe biblica”.
Quattro mesi dopo i leader Ue che hanno approvato il “Recovery Fund” hanno essenzialmente fatto propria la sua raccomandazione. Ma era accaduto anche per otto anni nel consiglio Bce: le linee di politica monetaria elaborate dal Presidente hanno regolarmente ottenuto larghi consensi, a dispetto delle stesse opposizioni “frugali” che hanno fino all’ultimo messo in discussione il maxi-intervento per la Ricostruzione in Europa. Anzi, il budget straordinario di 750 miliardi di aiuti può essere considerato – per molti versi – un momento fondativo di quella “politica fiscale europea” su cui Draghi ha sempre sollecitato l’Europa dei governi mentre lui pilotava l’euro nei mari tempestosi del dopo-2008.
Mentre sull'”era Draghi” cominciano a esercitarsi gli storici, difficilmente dalla memoria collettiva può essere cancellato il whatever it takes con cui nell’estate 2012 affrontò una fase di grave instabilità dell’euro esclusivamente con la sua parola: con la sua credibilità personale, con il suo coraggio razionale. Perché il coraggio fosse per lui il valore più prezioso nella sua personale “cassetta di attrezzi” di uomo e banchiere, Draghi lo aveva raccontato tre anni prima: al Meeting di Rimini del 2009. “Mio padre – ricordò – mi ha lasciato un precetto di vita: se perdi il tuo denaro potrai rifarti; se perdi il tuo onore potrai riscattarti; soltanto se non avrai coraggio nessuno potrà mai dartelo”.
Quel giorno a Rimini, l’allora governatore della Banca d’Italia indicò tre sfide strutturali nell’agenda-Paese scossa dalla crisi finanziaria globale. Nell’ordine: la necessità di investire in capitale umano per garantire al sistema-Paese più competitività globale; l’obbligo di modernizzare il mercato del lavoro e la protezione sociale; l’impegno a colmare i divari fra Nord Sud del Paese, simbolico e riassuntivo del rischio multiforme che le diseguaglianze portano nelle società contemporanee. È un fatto che i governi italiani che da allora si sono susseguiti hanno lasciato da compiere molti dei “compiti a casa” assegnato da Draghi a Rimini. È assai probabile che quando Draghi aprirà il Meeting 2020, il prossimo 18 agosto, i tre key-point del 2009 saranno nuovamente al centro delle riflessioni più aggiornate del presidente emerito della Bce sulle prospettive economiche italiane e internazionali. È sicuro che le sue parole risuoneranno ancora di coraggio. E chi saprà ascoltarne la chiamata d’impegno, certamente saprà farne propria la forza.