La scorsa settimana nella Convenzione Nazionale dei Repubblicani per sostenere suo marito, Melania ha sfoggiato un vestito verde con larghe spalline, bottoni metallici, gonna al di sotto delle ginocchia e una cintura che le stringeva la giacca. Lo stile ricordava chiaramente quello di un ufficiale dell’esercito. Melania è nota per i messaggi che lancia attraverso il suo abbigliamento. Gli specialisti della First Lady degli Stati Uniti spiegano che quando è arrabbiata con il marito, per esempio, indossa vestiti di taglio mascolino. La scorsa settimana, Melania ha voluto mettere in chiaro che è preparata per la battaglia. Quale battaglia? Contro i Democratici guidati da un candidato troppo vecchio? Contro la seconda ondata del coronavirus? Contro la crisi economica? La battaglia cui è preparata Melania è la battaglia contro la paura. Da questa battaglia dipende il recupero nelle intenzioni di voto per Trump, che è dietro Biden nei sondaggi.

Questo fine settimana, l’editorialista del New York Times, David Brooks, sosteneva che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono vinte da chi sa utilizzare meglio la paura. Il risultato dipenderà “da come i due rivali tratteranno la percezione di quali sono le minacce” che mettono in pericolo la sicurezza personale degli statunitensi. Vincerà il candidato che “ci  convincerà di più su quello che dobbiamo temere”. È una lotta non sui fatti, ma sulle percezioni e Brooks richiamava Biden sul fatto che è impossibile sottrarsi a questa dinamica.

L’editorialista del  New York Times suggeriva al candidato Democratico di usare “la diffusa ansietà per la sicurezza personale”, insistendo sul fatto che il pericolo reale non è dato dai disordini pubblici o dalla globalizzazione, bensì dall’incompetenza di Trump e dalla sua distruzione dell’ordine sociale.

Razione doppia, quindi, di polarizzazione in vista di elezioni presidenziali nelle quali uno stato patologico si considera un dato insuperabile e determinante. Tutto questo in un contesto in cui i social network e la segmentazione del pubblico su Internet si sono trasformate, dopo l’isolamento, in una modalità per separare il mondo e la percezione che si ha di questo mondo. Stanno sempre di più diventando una realtà in se stessa che strumentalizza, spesso, l’ansia per incolpare l’altro.

L’ecosistema dell’ansia non è di certo un fenomeno esclusivo degli Stati Uniti. Nel centro e nel sud del continente americano questa ansia non è provocata dalla guerra delle percezioni, ma dall’imminenza di un altro decennio perso. L’America Latina rappresenta l’8% della popolazione mondiale, ma ha già registrato il 40% dei contagi mondiali da Covid. Il Brasile è il secondo Paese al mondo per morti. Quest’anno il Pil calerà di quasi il 10% e la ripresa sarà molto lenta. L’America di lingua spagnola, che è già un’area di grandi diseguaglianze nel pianeta, le vedrà aumentare. Da parte sua, l’Unione europea ha meno da temere, tuttavia lo sconcerto e l’ansia non sono dati statistici, soprattutto perché il fatto che la prima e la seconda ondata siano state ravvicinate ha causato una “stanchezza dell’ottimismo”. È difficile continuare a mantenere gli stupidi slogan che assicuravano che tutto sarebbe finito bene o che la ripresa sarebbe stata a V, quando le previsioni sono tutte saltate.

La malattia, la crisi economica, l’insicurezza sono fatti e vanno ben al di là della strumentalizzazione delle percezioni. Tuttavia, forse non sono i fatti né la loro percezione che alimentano l’ansia, ma la persona, la società, la coscienza che si ha di sé vivendo questi fatti. Gran parte di questo stato patologico che ci minaccia tutti ha a che vedere, sicuramente, con ciò che lo scrittore Manuel Vicent, su  El País, considera un dogma: “All’improvviso un semplice virus ci ha fatto sapere che la vita dell’umanità è un episodio contingente, un’avventura biochimica senza senso nella storia di questo pianeta”. La battaglia, per la quale non è sufficiente un’uniforme verde, è contro l’ombra della mancanza di significato.