È notizia di questi giorni che il governo ha varato le richieste per quello che in Italia ci si ostina a chiamare Recovery Fund, ma che l’Europa continua a definire più ambiziosamente, come ha ricordato l’altro ieri Ursula von der Leyen, Next Generation Eu.
Per anni si è descritta l’Unione europea come scarsamente interessata e impegnata nello sviluppo armonico di tutti i paesi. Si trattava di una lettura non lontana dalla verità visto che, pur in presenza dei fondi Ue per la coesione sociale, il neo-liberismo, il mercato senza se e senza ma, è stato il mantra dell’Europa post caduta del Muro.
A tutto ciò negli ultimi 30 anni si è aggiunta una sempre più imperante e inarrestabile globalizzazione, decisa negli anni 90. Un liberismo che si sposava bene con la demonizzazione di ogni intervento dello Stato di stampo post-keynesiano, teso alla progressiva riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil, e con il privilegio concesso a Stati come la Germania, a cui non veniva chiesto di reinvestire l’eccessivo surplus di bilancio derivante dal suo arrembante export.
A un certo punto, però, a seguito di una crisi finanziaria mai risolta completamente, qualcosa è cambiato, più o meno in concomitanza con la nuova presidenza tedesca della Ue. Quello che sembrava un’utopia o la narrazione di un sogno è diventato un progetto serio con relative e copiose risorse incluse: l’Europa ha cominciato a ripensare allo sviluppo come a un processo da governare in base a obiettivi da scegliere. E da scegliere tenendo in conto il bene dei suoi cittadini, attuali e futuri, e dell’ambiente. Poteva scegliere tra diverse opzioni, ma ha puntato sullo sviluppo sostenibile per uscire dall’impasse. A tal fine vuole diventare il primo spicchio di mondo neutro rispetto al global warming ed esige che ciascuno dei 28 paesi si faccia parte attiva di questo nuovo paradigma di sviluppo.
Accantonando per un attimo bontà e ragioni ideali, fosse solo per puro interesse, se una entità sovranazionale vuole essere veramente coesa e raggiungere un obiettivo di crescita, è assolutamente necessario che tutte le sue parti si muovano di conseguenza.
Per raggiungere questo risultato gli obiettivi sono tre: la digitalizzazione, senza la quale un’economia moderna sarebbe impossibile; la transizione alla sostenibilità, che è il cuore del cambiamento; la lotta alle disuguaglianze sociali, territoriali e personali, perché non è più sostenibile un mondo in cui il liberismo accresce ed esaspera le disparità.
Siamo di fronte a un cambiamento culturale non da poco, che non si può non registrare, come confermano anche le misure post pandemia. E dovrebbe essere proprio il nostro paese il primo a rendersene conto per poter inaugurare una stagione di cambiamento radicale dopo che tutta la storia della Seconda Repubblica, praticamente senza soluzione di continuità, è stata segnata da mancanza di visione e da politiche di breve respiro.
In Italia, da troppi anni, il grande assente è l’investimento, sia privato che pubblico, al punto che si è consolidata una poco virtuosa tradizione: quella di spendere meno del 10% dei fondi strutturali messi a disposizione dalla Ue, spesso più preoccupati di attaccare le regole europee che di sfruttarle per il bene del Paese.
L’Italia non sembra aver ancora capito il cambiamento di passo dell’Europa. Lo certificano molti indizi. Per esempio, anziché leggere la discussione sul Recovery fund come l’inizio di questa nuova epoca, la nostra classe politica l’ha interpretata semplicisticamente come la battaglia dei paesi avari e frugali contro gli eroici corsari a difesa del popolo.
Non solo: apparentemente in modo casuale, la nostra classe politica ha inanellato uno scivolone dietro l’altro, a partire dall’improvvido annuncio, da parte di membri del governo, che i fondi europei sarebbero serviti per tagliare le tasse. Annuncio a cui il commissario europeo Paolo Gentiloni ha risposto, negandone la possibilità.
Quanto al rifiuto del Mes, la nostra classe politica non può più pensare di investire nella sanità secondo una logica dettata esclusivamente da interventi assistenziali ed emergenziali, che tanto ricorda la politica delle scarpe donate ai napoletani da Achille Lauro, una prima e una dopo le elezioni comunali.
E ancora: la nostra classe politica ha prima ignorato e poi nascosto in un cassetto il piano Colao, che tentava di fissare linee guida per una spesa pubblica in sintonia con gli obiettivi europei, ma utile anche a favorire un cambiamento strutturale del paese.
L’esito di questi scivoloni? Le 557 schede messe a punto dai vari ministeri, che si spingono a chiedere all’Europa più di 670 miliardi, tre volte tanto quanto spetta al nostro paese, per soddisfare una pletora di progetti slegati l’uno dall’altro, con “un corposo capitolo di “varie ed eventuali” – come ha annotato il Corriere della Sera – che va dall’ammodernamento degli impianti di molitura delle olive al rafforzamento del servizio meteo, dal voto elettronico per gli italiani all’estero alla «giustizia predittiva» per l’Avvocatura dello Stato, che aiuta a scrivere pareri e memorie sulla base dei precedenti, fino a una «costellazione di piccoli satelliti per il monitoraggio dello spazio extra atmosferico»”. Un elenco raffazzonato, che somiglia tanto a una lista della spesa predisposta da una famiglia numerosa che pensa di andare al supermercato senza neppure coordinare i desideri dei suoi componenti.
Ma i nodi stanno venendo al pettine e l’Europa, che forse non farà più ricorso a misure drastiche come con la “troika” in Grecia, si è comunque cautelata, intervenendo sui meccanismi di erogazione dei fondi: qualora un paese non dovesse abbracciare la logica dell’investimento organico nei tre campi prima accennati, adottando procedure chiare e garantendo tempi certi, i soldi non arriveranno. Senza dimenticare che la Ue sta da tempo piazzando nelle istituzioni molti “suoi” rappresentanti italiani, attenti soprattutto alle esigenze dell’Europa.
Chi parla di colonialismo dell’Europa è però fuori strada, perché l’Italia per superare la recessione e il rischio di una crescita strutturale molto bassa ha bisogno proprio di partecipare a questa svolta: non possiamo farlo da soli, serve un piano comune, di respiro europeo e di lungo periodo.