Nel mentre la tornata delle elezioni amministrative si avvia a conclusione condita da un referendum che, passi o meno, poco cambierà nel sistema politico nazionale, il Paese continua a mandare segnali chiari su ciò di cui davvero bisogna occuparsi. Accanto alla sfida epica per spendere con coscienza, attenzione e profitto i soldi che l’Europa ha concesso dopo anni di Austerity, si riapre la questione sociale che travolge la cronaca con episodi che fanno affiorare la distonia di valori che connota ampi tratti della società.

Il massacro di Willy a Colleferro e la vicenda di Maria Paola a Caivano si legano con la morte di Don Roberto a Como. Le tre storie narrano di ampie sacche di solitudine ed emarginazione sociale che, analizzate nel loro insieme, pongono tutti noi di fronte alla necessità di aprire la mente e iniziare ad occuparsi di  temi che la pandemia pare aver rinchiuso nell’irrilevanza.

La convivenza tra mondi diversi culturalmente e vicini fisicamente provoca effetti deflagranti, e pare non funzionare più quella osmosi sociale che molta parte ha avuto nel costume una coscienza comune tra chi condivide famiglie, quartieri e strade.

A Colleferro un gruppo di ben torniti e ben vestiti avrebbero massacrato un giovane di colore che avrebbe l’unica colpa di aver voluto difendere un amico. Le immagini ci mostrano uno spaccato di vita riempito solo di beni di lusso, spesso in affitto, e di immagini patinate. Una voglia di mostrare un benessere che però non poggia su altro che su ostentazione ed autoaffermazione di potenza fisica, un benessere cattivo e umiliante, ostentato solo per far percepire una propria supposta superiorità basta solo su ciò che si mostra di avere e non su ciò che si è. Così la sopraffazione diviene l’unico modo di interazione con gli altri che o diventano sudditi di quella forza o vanno annientati.

A Caivano riemerge il fiume carsico rosso di sangue di quello che un tempo era chiamato “onore di famiglia”. Declinato nella non accettazione e non comprensione dell’altro. Gesti intimidatori, violenti, che spazzano via ogni progresso nel dialogo e nella comprensione. Come se gli anni ‘50 siano ancora qui e come se la violenza manifesta, gli inseguimenti, le urla e i gesti criminali siano l’unica reazione nota, e attesa, da un contesto sociale che, anni fa, aveva già sopportato  la sevizia di bambini nel silenzio, quella volta, di chi sapeva. Le urla per uno scandalo ed il silenzio per un crimine.

A Como, la vita di Don Roberto, dedito agli ultimi tra gli ultimi, è spezzata dalla incapacità di coglierne l’amore, dalla inconciliabilità  di chi non riesce a percepire chi sta dalla tua parte e che, messo dalla vita nell’angolo della disperazione, tira fendenti ciechi e folli spezzando ogni possibile via di redenzione, affranto dal peso di una vita oramai segnata e senza speranza.

Esiste ancora, non curata, la ferita del mancato progetto di valori e di crescita della società del nostro Paese, una mancanza di cui si avvertiva il bisogno di riempirla già prima della pandemia e che oggi, con la crisi che ne deriva, ci ricorda che condividere la stessa terra ed essere prossimi geograficamente non basta a creare un ambiente di valori comune. Anzi, le fortezze in cui quartieri degradati del Mezzogiono si chiudono sono fortini ideologici che tengono lontana ogni possibile iniezione di diversità culturale così come lo è il deserto  di una ricchezza vuota o la disperazione di una vita fragile. Della isole fortificate in cui nulla può penetrare, neppure la luce di un ragionamento basato sull’accoglienza e sul dialogo, perché non può essere messa in discussione la cultura dominante basata sulla sopraffazione. Ed il benessere economico, fatto di espedienti, attività illecite o dalla fruizione a sfregio di sussidi statali, finché l’offerta di un aiuto materiale  non emancipano, non creano una salto culturale verso valori di convivenza e di comprensione perché anche quel benessere è figlio di una cultura diversa, violenta e sopraffattrice che nega essa stessa ogni possibile percorso alternativo nella costruzione della propria  identità economica e sociale.

Non serve perciò solo occuparsi del benessere economico degli ultimi, della spesa che dovremo fare delle risorse che avremo, ma serve ed è necessario riannodare il tappeto di valori che la corsa al benessere “da mostrare” come identità personale e la solitudine che genera  ha squarciato. Rimettere al centro l’individuo come soggetto capace di provvedere a se stesso con il propio lavoro, restituire un ruolo alla natura collettiva della società che, tramite le interazioni sociali positive, costruisce ponti e relazioni, riportare al centro della Politica la questione della perdita di valori che pezzi del Paese stanno soffrendo. Consapevoli che non è sufficiente regalare un reddito, offrire una coperta o lasciare che ci si arricchisca in maniera illecita che preserva la società tutta dalla sua disgregazione. Il benessere economico condiviso che dovremo costure per tutti è solo una premessa, ma accanto si dovrà mettere mano ad un piano sociale da affidare al terzo settore, alle strutture sussidiare, agli attori culturali da sostenere ed incentivare affinché  accanto al Recovery Plan, che si occupa solo del pane, qualcuno inizi anche ad occuparsi del cuore e della mente della nostra società. Altrimenti saremmo più ricchi, ma di certo meno umani e solidali, e la partita sarà persa su di un piano irrimediabile e che nessun aumento del PIL potrà mai recuperare.