La giostra delle elezioni si è fermata senza sorprese nella guida delle regioni. Il voto ha manifestato una voglia di stabilità e di governo premiando chi ha gestito questi mesi complessi. Non era difficile da pronosticare che la soddisfazione per lo scansato (quasi) pericolo dei mesi scorsi nel Mezzogiorno avrebbe trovato sfogo nel confermare gli amministratori e non nel cambiamento. Del resto è regola antica che il consenso viene dalla percezione del propio benessere che oggi è più che mai legato alla salute, prima ancora che all’economia.
La stabilità degli enti servirà a dare forza alle richieste dei territori che ora si presentano al Governo come legittimati dalle urne e quindi i primi ad aver passato indenni le elezioni dopo la gestione della crisi. La lezione dovrebbe valere anche per il Governo nazionale. Dopo la slavina di norme dei mesi scorsi, la flessibilità sui conti ed i finanziamenti ottenuti in Europa, Conte ed i suoi ministri avrebbero il dovere di procedere spediti ad aprire cantieri e varare progetti di sviluppo.
L’assenza di queste settimane, motivata dal timore di essere travolti da una sconfitta, non ha più ragion d’essere e la sola attenzione ai temi sanitari già si presenta come insufficiente a giustificare un rinnovato consenso alle forza politiche di maggioranza.
Il perché è semplice: il Paese ed il Mezzogiorno non perdonerebbero il lasciar cadere un’occasione storica di sviluppo come quella che ci si presenta. Neppure servirà al populismo invocare il taglio dei parlamentari ottenuto o alla sinistra la revisione dei decreti sicurezza. Per conquistare al Governo il consenso si devono spendere presto e bene le risorse nel Mezzogiorno. Le politiche di coesione invocate da più parti devono essere messe immediatamente in agenda con tempi certi per evitare che il fallimento a catena di enti locali, dal comune di Napoli in poi, azzerati i residui servizi collettivi, faccia rimpiangere le scelte eversive degli ultimi anni.
Non è più tempo di tagli alla politica e di “mandare a casa” la casta. Ormai la casta è rediviva e ha facce nuove, facce partite dai palchi del vaffa day e ormai in grisaglia sotto cui si nascondono le culotte rivoluzionarie che si avviano a sbranarsi tra loro come Danton e Robespierre.
Accanto vi è una forza ancora gracile e che cerca una propria identità, che in realtà troverebbe facilmente se avviasse una politica che guardi al Mezzogiorno ed ai lavoratori tutti come priorità.
Anche per il Pd non è tempo di festeggiare; senza un’azione di politica economica di sviluppo e di impatto immediato, a nulla sarà servito stare al governo se non a salvare la carriera di qualche leader alleato.
Lo scenario si può volgere a favore delle forze di Governo se non cadranno nel tranello egotico di de Magistris. Iniziò da anti-casta rivoluzionario, si fregiò di aver ripulito Napoli, venne rieletto per la pochezza degli avversari, ma oggi lascia un disastro amministrativo, senza una maggioranza, senza una prospettiva politica per la città e per se stesso. Il tutto continuando a rilanciare delibere per i bitcoin partenopei, proclami sulle flotte di sinistra per raccogliere i migranti, feste comuniste a cui manco Fidel andrebbe più e inneggianti proclami senza costrutto sulla grandezza della città (e quindi sua). Il tutto per un vuoto di politica che gli ha impedito, accecato dall’ego, troppo indaffarato a guardarsi nelle acque e rimirare la sua immagine, di chiudere accordi politici con la Regione e con il Governo.
Una trappola insidiosa che è il vero rischio per i Governo. Rinchiudersi nelle proprie scelte e non riuscire ad alzare lo sguardo temendo di non apparire fedeli ad un’immagine anti-casta o di sinistra, senza interrogarsi se non sia oggi il tempo per lasciare alle spalle la propria autorealizzazione e guardare avanti per risolvere i problemi veri. Che restano gli stessi. Il divario tra aree del Paese, la decadenza delle grandi città, l’assenza di progetto e di attenzione per i giovani, lo squilibrio nei conti tra spese improduttive ed investimenti, con questi ultimi per ora solo annunciati.
Il Mezzogiorno ha una forza elettorale importante e già ha dimostrato la sua volubilità nel dare il consenso, passando in 10 anni da Berlusconi a Renzi e ai 5 Stelle e ha bocciato chi non ha dato risposte più che premiare i nuovi. Nella quotidianità si avverte con pesantezza l’assenza di servizi, di sviluppo e di prospettive e sono questi i motivi del malcontento verso la classe politica precedente che ha subito l’aggressione populista dei presunti privilegi.
Il Governo non avrà alcun consenso dal mero sfogo della rabbia e dell’avversione alla politica che alcuni pensano ancora di cavalcare indicando come priorità tagli agli stipendi invece che creare posti di lavoro. Il referendum ha solo certificato lo sdegno per centinaia di eletti che nulla hanno portato di concreto ai loro elettori. E la vittoria dei governatori uscenti è la vittoria di chi ha gestito la crisi e nulla ha a che vedere con il consenso al governo, i cui partiti, invece, perdono voti in assoluto. Appoggiarsi su quelle personalità per rivendicarle come proprie è un errore grave. Significa dimostrare la propria debolezza, certificata dall’inazione prolungata, ed inneggiare a chi, con meno poteri e meno soldi, ha comunque gestito quel che poteva.
Al Mezzogiorno serve governo, serve affrontare la crisi delle grandi città, servono cantieri da aprire e da chiudere con rapidità. Altrimenti il Mezzogiorno sceglierà altro e lo farà sempre con maggior rabbia, voltando le spalle a chi pensa di blandirlo più che governarlo.