L’esperienza di questi mesi ha reso evidente a tutti che il sistema sanitario dovrà affrontare nel futuro scenari in cui eventi come quelli che hanno generato la pandemia in corso dovranno essere oggetto di una rinnovata politica di sanità pubblica al fine di monitorare fenomeni dovuti ad agenti infettivi. L’Oms ha previsto  scenari che per il futuro vedono un significativo assorbimento di risorse pubbliche ed investimenti consistenti da parte delle big-pharma per poter rispondere a tale nuova sfida.



Se si da per assodato il nuovo scenario di cui si dovrà imprescindibilmente tener conto nel futuro, al momento la discussione si è focalizzata sulla ricorrente litania del “rafforziamo i servizi territoriali”.

Porto ad esempio quanto dice Stefano Neri: “Se la prevalenza delle patologie cardiovascolari e tumorali non sembra messa in discussione, nuove epidemie rendono possibile una ripresa non episodica dell’incidenza delle patologie infettive, cui è necessario essere preparati. Questo vuol dire certamente riorganizzare gli ospedali, aumentando stabilmente le risorse strutturali con la valorizzazione di reparti, come quelli delle malattie infettive, finiti in secondo piano negli ultimi anni, (…). Ma, soprattutto, ciò significa procedere speditamente alla costruzione di quel sistema di cure primarie e assistenza territoriale che, nella sua duttilità, rappresenta il punto di primo contatto con il paziente e di governo delle patologie, siano esse croniche o infettive, con ricadute straordinarie su tutto il sistema sanitario. A nostro avviso, sulla scorta delle migliori esperienze regionali, tale sistema deve puntare con decisione sui Medici di medicina generale (Mmg), associati in vario modo tra loro e con altri professionisti sanitari, nonché dotati stabilmente di supporti specialistici.



La ricorrente discussione sul ruolo del cosiddetto territorio e del sistema ospedaliero  non ha mai avute chiare declinazioni sugli elementi costitutivi di tale fantomatico “sistema territoriale” lasciando solo spazio a prese di posizione di parte rispetto ai vari sistemi regionali nel contesto della gestione della pandemia a mero titolo polemico.

A prescindere da tale diatriba, i fatti dicono che la risposta ad un tipo di domanda non può essere data da attori che non sono interscambiabili: le competenze specialistiche non possono essere trasferite con un semplice cambio dell’organizzazione, serve un adeguato piano di formazione per sviluppare ulteriormente le professionalità esistenti sul territorio ma anche un piano di formazione per i professionisti ospedalieri per una rinnovata collaborazione fra professionisti a prescindere dai silos di collocamento dei singoli professionisti (che siano silos ospedalieri o territoriali poco conta).



I momenti di crisi sono propizi per osare cambiamenti impensabili nei momenti di “normalità” e credo che rischiare sia imprescindibile in questo momento per poter rispondere all’attuale bisogno di salute. Si stima infatti che, soprattutto nelle regioni maggiormente colpite dal Covid, ci sia una calo delle prestazioni ambulatoriali fra il 20 e il 30% e del 20% per le attività di ricovero. Il tutto dovuto alle raccomandazioni Covid su distanziamento, spazi ambulatoriali e tempi di esecuzione oltre che riduzioni dei posti letto garanzia dell’evoluzione dei vari scenari pandemici.

Tenuto conto che le prestazioni indifferibili hanno avuto una risposta accettabile (tumori, dialisi, prestazioni emergenza/urgenza) ciò evidenzia un’ulteriore contrazione in altri settori, come ad esempio il cardiovascolare.

Su questo bisogna realisticamente mettere in atto azioni usando gli strumenti a disposizione senza fermarci al ruolo degli Mmg ed al loro contratto o alla deospedalizzazione o alla mancanza degli specialisti. Nei momenti di crisi si deve cogliere l’occasione di “stressare” l’organizzazione anche mediante una reale digitalizzazione a supporto di tale organizzazione, fatta da professionisti, che possa sdoganare definitivamente strumenti come ad esempio la telemedicina, togliendola definitivamente dai convegni specialistici. Tale scelta permetterà di poter almeno in parte colmare il gap fra domanda ed offerta in attesa di una reale possibilità di avere nuove risorse umane. Ma questo è un altro capitolo.

Un’ultima riflessione: non vale la pena cogliere questo periodo come occasione di ripensamento del ruolo delle professioni sanitarie invece di parlare di deospedalizzazione e di territorio? Il patrimonio professionale presente in tali figure non vale la pena di essere ulteriormente valorizzato, come avviene in altri paesi? Tentativi in atto ci sono, ma serve più coraggio superando certi steccati fra dirigenti medici e professioni sanitarie. Parliamone.